Chiesa e prevosti a Valenza nell’Ottocento
L'approfondimento storico del professor Maggiora
VALENZA – Valenza, durante il periodo napoleonico, si presentava come un centro urbano di dimensioni modeste, situato in una posizione strategica e ben definita. Non si trattava di una metropoli pulsante, ma neppure di un villaggio sperduto. La sua estensione urbana terminava con la via Lega Lombarda e la via Mazzini odierne, delimitata da confini naturali che ne plasmavano l’identità: due valloni, uno a est e uno a ovest, la cingevano, mentre il fiume Po ne segnava il limite settentrionale, conferendo alla cittadina un ruolo di osservatorio fluviale e punto di passaggio.
Nel 1801, la popolazione di Valenza ammontava a 5.432 anime. Di queste, la maggior parte, circa 3.800, risiedeva nel cuore della città, mentre il resto si distribuiva tra Monte Valenza, il borgo collinare che dominava la pianura circostante, e le aree rurali sparse, dedite principalmente all’agricoltura. La cittadinanza, pur modesta, era vivace e legata alle proprie tradizioni.
La vita religiosa della Valenza d’inizio Ottocento ruotava attorno all’unica parrocchia cittadina, guidata dal 1797 dal parroco-prevosto Francesco Marchese, successore di Giuseppe Zuccaro parroco-prevosto dal lontano 1781 fin troppo ispirato a principi conservatori tradizionali e distanti dalle illusioni rivoluzionarie del momento. Don Zuccaro era un mistico immerso nella vita evangelica, una moda antica e una realtà puritana mai passata sino ad allora, ma, soprattutto, un sacerdote che aveva vissuto spesso controcorrente per sorreggere gli ultimi.
La figura del prevosto Marchese, che avrebbe retto le sorti della parrocchia fino al 1830, merita un’attenzione particolare. Uomo di acume e intelletto non comuni, si trovò a vivere in un’epoca di profonde trasformazioni politiche e sociali, un periodo estremamente agitato ed eccezionale che avrebbe messo a dura prova la sua fede e il suo ingegno.
Don Francesco Marchese, prima di giungere a Valenza, aveva intrapreso una brillante carriera accademica a Pavia, dove aveva ricoperto la cattedra di professore. La sua preparazione intellettuale e la sua profonda fede lo resero ben presto un punto di riferimento per la collettività locale. Una volta divenuto parroco di Valenza, si guadagnò la stima e la benevolenza di monsignor Bertieri, vescovo di Pavia, che oltre a dimostrargli la propria fiducia in diverse occasioni, nel marzo del 1800 gli conferì una cappellania (fornire assistenza spirituale e ministero religioso a una certa comunità), denominata dell’Epistola (missiva), un segno tangibile del riconoscimento delle sue qualità umane e spirituali.
Tuttavia, il clima politico e sociale di Valenza del tempo era diventato tutt’altro che sereno e soprattutto per i religiosi foriero di sventure. Le idee rabbiosamente anticlericali, propagate dalla Rivoluzione Francese (dove i giacobini praticarono la scristianizzazione e definirono «tiranno» un flemmatico bonaccione come Luigi XVI), avevano attecchito anche in questa piccola cittadina alimentando un clima di tensione e portando a episodi di contestazione e all’uso laico di diverse chiese, destinate a usi differenti dal culto.
Sulle prime, quando presenziavano i primi francesi, alcuni valenzani furono innamorati giacobini, salvo poi ricredersi presto di fronte al nuovo Direttorio (grande inquisitore delle verità intangibili) che decideva sul lecito (quasi nulla) e il vietato. L’accaduto non era stabilito dalla Provvidenza o dal Fato lo faceva l’uomo, cioè Napoleone Bonaparte.
Fin dall’inizio, i rapporti tra le irriverenti autorità francesi e il parroco Marchese furono problematici, caratterizzati da una reciproca diffidenza e da continui attriti. Tutto ciò che aveva a che fare con la religione non era benaccetto, era considerato cosa da bigotti. Questa difficile convivenza segnò l’intero periodo napoleonico a Valenza, ponendo il sacerdote di fronte a scelte difficili e a sfide inedite. Generò la transizione dalla gestione parrocchiale a un sistema statale centralizzato, che registrava gli eventi di vita in archivi laici, poiché la chiesa non era più un soggetto politico, ma semplicemente un subalterno sociale osteggiato che meritava la mordacchia. Per i matrimoni, le nascite e i funerali la popolazione valenzana doveva, senza possibilità di indugio, recarsi perentoriamente prima in municipio che in chiesa. La situazione era tesa, densa di cambiamenti e presagi di altre trasformazioni radicali.
In questo clima d’incertezza e rivoluzione, segnato profondamente dall’eco della soppressione degli ordini religiosi, nel 1802 veniva decretata la liquidazione del venerabile monastero della Santissima Annunziata, con la volontà di incistarsi dentro un ordinamento storico con principi morali e religiosi alternativi. Le monache, attonite e smarrite, dovettero assistere impotenti allo smantellamento della loro vita secolare di preghiera e contemplazione. La loro chiesa, un tempo fulcro spirituale per la comunità, venne temporaneamente affidata alla cura della confraternita di San Rocco e San Sebastiano, custodi devoti delle tradizioni locali. La tormentata storia, però, non si fermò. Nel 1835, la gestione della chiesa passò poi nelle mani dei Camilleri, segnando un’altra fase di transizione e infine nel 1866, con la seconda ondata di soppressioni degli enti ecclesiastici promossa dal governo del nuovo regno, la chiesa ritornò nuovamente sotto la tutela della confraternita di San Rocco, confermando la sua resilienza e il suo legame profondo con la società locale.
Parallelamente, tra figure, figuracce e figuranti, altre istituzioni religiose subivano un destino simile. Il convento e la chiesa dei Cappuccini, un tempo luoghi di silenzio e riflessione, scomparivano dal panorama cittadino, lasciando un vuoto incolmabile nel cuore dei fedeli.
Il maestoso convento di Santa Caterina, un complesso ricco di storia e arte, veniva liquidato e smembrato senza pietà. Diviso in lotti, era venduto a privati, trasformando gli spazi sacri, in proprietà commerciali e abitazioni private. Le religiose, un tempo figure rispettate e venerate, erano ormai trattate come relitti di un passato cristiano che si credeva ormai superato, quasi come capri espiatori del male oscuro che si voleva abolire con tanta fretta e determinazione. La loro vita, dedicata alla fede e al servizio, veniva così sminuita e dimenticata.
Peraltro, anche le settarie e sfuggenti confraternite religiose, custodi di antiche tradizioni e rituali, affrontavano non poche difficoltà. Munite di rispettive chiese – la Santissima Trinità, San Bartolomeo, San Giacomo Maggiore, San Rocco e San Sebastiano, San Giovanni Decollato – lottavano per preservare la loro identità e la loro autonomia in un ambiente sempre più ostile e sfavorevole. La loro esistenza precaria e spesso clandestina testimoniava la persistenza di una spiritualità popolare radicata nel territorio, nonostante i tentativi di soppressione e controllo da parte delle autorità civili, che spesso erano sospettate di essere più corrotte di coloro che venivano precettati.
Il 22 maggio 1814, un giorno di sollievo e rinascita apparente, il parroco Marchese, la figura più di spicco nella cosiddetta «bigotta e bacchettona» società religiosa locale, celebrò solennemente un Te Deum. L’eco delle recenti catastrofi – la disastrosa ritirata napoleonica dalla Russia e la cocente sconfitta di Lipsia – ancora risuonava nell’aria, ma la speranza di un nuovo inizio, del ritorno «degli antichi governi», come si diceva, aveva acceso gli animi. Valenza, città da sempre legata alle sorti del più ampio mandamento nella provincia di Alessandria, era nuovamente in festa. Un’esplosione di colori, musica e preghiere si levarono, quasi a voler cancellare gli anni di guerra e incertezza. “Sic transit gloria mundi”, mormoravano però alcuni, consapevoli della fragilità della fortuna e della transitorietà del potere.
Infatti, la gioia fu di breve durata. Come spesso accade, la realtà si rivelò ben più complessa delle speranze nutrite. Le sventure, parevano intenzionate a non abbandonare la regione, e Valenza si trovò ben presto a soggiacere alla «Restaurazione sabauda». Questo periodo, presentato come un ritorno all’ordine, portò con sé nuove forme di disagio e limitazione che costrinsero nuovamente a cambiare la vita religiosa.
Per la chiesa locale, il periodo successivo all’epopea napoleonica, rappresentò un’epoca di profonda trasformazione, segnata da un complesso processo di ristabilimento e ridefinizione del proprio ruolo all’interno di una società in rapida evoluzione. La Restaurazione, un tentativo deliberato di ripristinare l’ordine pre-rivoluzionario, si sforzò di riaffermare l’autorità religiosa, sebbene con un potere temporale significativamente ridimensionato rispetto al passato. Questa riaffermazione avvenne in un quadro culturale e politico in cui le idee scaturite dalla Rivoluzione francese, con i suoi ideali di libertà, uguaglianza e, soprattutto, la nuova indipendenza di culto, continuavano a permeare la società, mettendo in discussione le fondamenta stesse del potere clericale.
L’epoca vide il graduale ripristino delle istituzioni ecclesiastiche tradizionali, tuttavia, non fu una semplice copia del passato poiché le istituzioni ricostituite operarono con una diversa autonomia e con un’influenza politica che, in molti casi, fu gradualmente erosa e sostituita da un ruolo più incentrato sulla cura delle anime e sull’elevazione spirituale della comunità.
A Valenza uno degli aspetti più tangibili e mal sopportati fu l’insediamento di un presidio austriaco autoritario e spocchioso, una presenza militare percepita come un’imposizione esterna. Dal 1815 fino al 1823, circa 600 uomini, custodi inflessibili dell’«ordine restaurato», mantennero una sorveglianza costante sulla città. La loro presenza, sebbene ufficialmente presentata come una forma di «protezione militare», si tradusse in un controllo pervasivo sulla vita quotidiana, alimentando risentimento e frustrazione tra gli abitanti.
Le conseguenze della restaurazione sabauda non si limitarono alla sfera militare. Ritornarono in auge gli «anacronismi dell’antico regime» con prassi, leggi e privilegi che molti credevano superati. I vapori d’incenso tornarono a saturare l’aria, simbolo di una religiosità ostentata e spesso ipocrita. I monasteri, un tempo potenti centri di potere, ripresero a esercitare la loro influenza. Soprattutto, il monopolio ecclesiastico sull’istruzione, quasi un malanno per il progresso e la libertà di pensiero, fu ristabilito con vigore, soffocando ogni tentativo di modernizzazione scolastica.
La chiesa locale, pur mantenendo un certo prestigio sociale, si trovò però a competere con nuove forze ideologiche e politiche emergenti. In questo panorama in trasformazione, alcune figure ecclesiastiche locali si distinsero per la loro dedizione e il loro impegno nel servizio alla collettività: quasi una religione senza trascendenza che a volte si incontrava, a volte si scontrava con l’autorità del luogo.
In quest’ambiente tumultuoso e contraddittorio del Primo Ottocento, emergeva di continuo la figura complessa e ambivalente di don Francesco Marchese. Uomo di chiesa, certo, ma anche figura pubblica complessa costretta a navigare tra le correnti mutevoli della politica. Il suo carattere, una miscela di astuzia e pragmatismo, lo spingeva a comportamenti apparentemente contraddittori. Sotto il governo francese, si era dovuto sforzare di apparire in sintonia con i sentimenti «giacobini», abbracciando, almeno esteriormente, gli ideali di libertà, uguaglianza e fratellanza. Con il ritorno degli austriaci e dei sardi, la sua postura mutò radicalmente, trasformandosi in un’adesione, altrettanto ostentata, ai principi monarchici e conservatori.
La sua ambiguità non sfuggì ai suoi superiori. Di fronte al proprio vescovo di Pavia, don Francesco Marchese, al tempo dei francesi, aveva esibito una indipendenza giudicata eccessiva, quasi una sfida all’autorità ecclesiastica. Al contrario, al tempo degli austriaci e del loro riverito monopolio, si era mostrato come un esempio di «soggezione doverosa», un servitore zelante e obbediente che, con qualche ragione, reclamava più ascolto e considerazione.
Questa capacità di adattamento, questa flessibilità nel cambiare casacca secondo le opportunità, sollevò interrogativi sulla sua autenticità e sulla profondità delle sue convinzioni. Era un opportunista, un simulatore, o semplicemente un uomo costretto a sopravvivere in un’epoca di sconvolgimenti epocali con ammiccamenti altalenanti, quasi sempre sull’orlo del precipizio? La risposta, probabilmente, risiedeva in una complessa combinazione di tutti questi elementi. Poi, forse, bisognava illudersi di contare su certe scelte e questo prete dimostrò anche di conoscere bene con chi aveva a che fare, soprattutto con i cattivi maestri che istruivano a prosperare nell’odio.
La parrocchia, almeno in relazione a Pavia, mantenne sempre la sua centralità come sede di Vicariato generale, esercitando la sua giurisdizione su quell’ampio territorio della diocesi pavese che si trovava sotto il controllo di Casa Savoia. Questo ruolo di preminenza e di costante popolarità le garantiva un’influenza significativa sulle questioni religiose e amministrative della zona. Quando poi, in seguito alle vicissitudini storiche e politiche, avvenne lo stralciamento di questa porzione di territorio dalla diocesi pavese (anche il sindaco Pellizzari si batté inutilmente perché ciò non avvenisse, anche se il carattere valenzano è sempre stato molto più affine all’alessandrino che non certo al pavese) e il suo passaggio sotto la giurisdizione del vescovo di Alessandria, la parrocchia dimostrò subito una notevole capacità di adattamento e di influenza religiosa.
Però, nel novembre 1817, quando la parrocchia valenzana fu aggregata alla diocesi alessandrina, divenendone la principale, perse il Vicariato generale con relativa curia sussidiaria (un numero ragguardevole di parrocchie dipendeva prima dal Vicariato di Valenza). Nel 1816 i sacerdoti a Valenza erano ben 34, più 10 chierici.
Il parroco Marchese, con la sua sagacia e diplomazia, seppe conquistare la stima e la fiducia di monsignor D’Angennes, il vescovo di Alessandria, a tal punto che la corrispondenza tra i due, dall’epistolario che si è conservato, trasmette l’impressione non già di un rapporto gerarchico tra superiore ecclesiastico e sottoposto, bensì di un’affettuosa e sincera amicizia tra pari. Le parole utilizzate, il tono confidenziale e i temi trattati rivelano una profonda intesa e un rispetto reciproco che andavano al di là delle convenzioni del tempo.
E fu proprio forte di quest’amicizia e della profonda stima che godeva presso il vescovo, che il parroco se ne avvalse in un momento critico. Nel 1821, infatti, si profilò all’orizzonte una nuova minaccia per l’unità della parrocchia: si fece avanti il progetto di costituire alcune nuove parrocchie nel territorio di Valenza, un piano che avrebbe frammentato l’unità territoriale e spirituale che la parrocchia di Santa Maria Maggiore aveva custodito per lungo tempo. Preoccupato per le possibili conseguenze di tale divisione, il parroco si appellò all’amicizia e all’influenza di monsignor D’Angennes. Una lettera datata luglio 1821, proveniente direttamente dal vescovo a don Francesco Marchese, testimonia l’efficacia di questo intervento. In quell’anomala missiva, monsignor D’Angennes assicurava con fermezza a Marchese che avrebbe ostacolato con ogni mezzo qualsiasi tentativo volto a ottenere la divisione del territorio valenzano in più parrocchie, ribadendo il suo sostegno all’integrità e all’unità della parrocchia esistente.
Don Marchese fu anche animato da un cuore generoso, di fede profonda e nello stesso tempo un prete di azione, egli si prodigò in elargizioni sostanziose a favore della chiesa parrocchiale, dimostrando un’immensa sollecitudine per il benessere spirituale e materiale dei suoi fedeli. La sua determinazione era notevole; quando si poneva un obiettivo, in genere lo raggiungeva con tenacia e perseveranza.
Con una tessitura diplomatica minuziosa e accurata, intraprese la complessa trattativa per l’acquisto della Cappelletta della Madonnina e dei terreni attigui, dimostrando non solo pietà religiosa, ma anche acume amministrativo e capacità di negoziazione. La sua carriera ecclesiastica lo portò a ricoprire incarichi di rilievo, come Rettore di Seminario e Vicario generale vescovile per le parrocchie pavesi soggette al re di Sardegna, testimoniando la sua competenza e la fiducia che riponevano in lui le autorità ecclesiastiche. La sua scomparsa, avvenuta nel 1830, lasciò un vuoto significativo nella collettività valenzana.
Nel principio dell’anno successivo, il ruolo di guida spirituale della società valenzana passò al prevosto Giuseppe Pellati, il quale ricevette ufficialmente le bolle di collazione della parrocchia nel luglio del 1831. Durante il suo ministero, il Pellati si distinse per un’attenzione particolare verso la cura e l’abbellimento dei luoghi di culto. Nel 1840, la chiesa di Santa Caterina, da qualche tempo in disuso, fu finalmente riaperta al pubblico, suscitando grande gioia tra i fedeli. Col tempo, la chiesa assunse un nuovo appellativo nel linguaggio popolare, venendo affettuosamente chiamata «San Bartolomeo» dai valenzani.
Il reverendo Pellati non era solo un uomo di fede, ma anche un uomo di cultura che parlava in modo giusto e diretto, con una spiccata sensibilità artistica e una visione chiara per il futuro della sua parrocchia, con il coraggio di sviluppare progetti e avere l’audacia della loro messa in pratica. La sua figura fugge alle etichette facili; nel 1845, avvalendosi di un prestito generosamente concesso dalla Chiesa, riuscì a portare a termine l’acquisto della piccola cappelletta della Madonnina, un’acquisizione che si rivelò fondamentale per i suoi progetti futuri.
Solo un anno dopo, nel 1846, sotto la sua guida e su progetto dell’ingegner Boeri, furono gettate le fondamenta della nuova chiesetta campestre dedicata all’Addolorata (la cappelletta della Madonnina). La decorazione interna fu affidata all’abilità artistica del valenzano Borra, che abbellì le pareti con affreschi raffiguranti scene sacre, contribuendo a creare un’atmosfera di profonda spiritualità. L’impegno del prevosto Pellati non si fermò qui: nel 1846 e nel 1854, con lungimiranza, furono acquistati altri terreni limitrofi alla chiesetta, consolidando il patrimonio della parrocchia e offrendo nuove opportunità per le attività pastorali. Con una certa sobrietà e un’eleganza essenziale, la nuova costruzione fu solennemente dedicata alla «Madonna della Pietà» da monsignore Dionigi Andrea Passio, vescovo di Alessandria dal 1833 al 1854, un evento che segnò un momento di grande importanza per la comunità locale, capace di unire Cielo e terra.
La guida illuminata del prevosto Pellati si interruppe bruscamente nel 1849, quando la morte lo strappò prematuramente all’affetto dei suoi parrocchiani.
Nel settembre del 1850, un anno dopo la sua scomparsa, la parrocchia venne affidata a don Domenico Rossi di Oviglio, chiamato a continuare l’opera iniziata dal suo predecessore e a guidare la comunità valenzana verso nuovi traguardi spirituali e materiali. Il ricordo del prevosto Pellati, araldo di carità, rimase vivo nel cuore dei valenzani, testimonianza della sua dedizione e del suo amore per la parrocchia. La Chiesa egli l’ha amata più di se stesso.
Il Canonico Vincenzo Zuffi, un prete valenzano pratico di management quanto di sacre scritture, una mente lucida e indipendente capace di rimettere in scala le cose senza patire alcuna sudditanza, incline a pensare e ad agire contro certe convenzioni, con fondi propri e, nell’occasione, con quelli lasciati da Donna Teresa Lana vedova Giovanni Grossi, fondò nel 1832 una benefica istituzione cittadina: la Casa di Riposo Ospedale degli Incurabili, «per ricordare alle succedutesi generazioni quel sentimento di evangelica carità e civili virtù di Valenza». In quei tempi gli incurabili erano tutti coloro che non erano in grado di sostenere il costo delle pur necessarie cure mediche. La comunità valenzana, con affetto e familiarità, prese presto a chiamare questo luogo di cura e speranza «l’Ospedalino», un soprannome che ne sottolineava la dimensione umana e la sua vicinanza ai bisogni della gente.
Un evento rilevante che ebbe un impatto profondo sulla vita di queste istituzioni religiose, fu l’emanazione delle leggi di soppressione del 1866. Queste leggi, di fatto, privarono gli istituti religiosi del riconoscimento giuridico che fino allora aveva garantito la protezione dei loro beni in quanto appartenenti a corporazioni religiose. La conseguenza fu una radicale trasformazione della loro base economica.
Le comunità devote si trovarono a dover rinunciare ai privilegi di cui avevano goduto, potendo unicamente possedere beni e continuare a vivere annodati alla cittadinanza ma ora, come semplici cittadini privati, interamente soggetti alle leggi dello Stato reputate troppo laiche dalla chiesa. Questo cambiamento impose nuove sfide e richiese una riorganizzazione delle risorse e delle attività, come la necessità di una quasi rigenerazione morale.
In un periodo precedente, precisamente tra il 1862 e il 1863, la costruzione e l’abbellimento della struttura sacra Madonna della Pietà, affettuosamente chiamata dai valenzani «la Madunina», furono al centro di una controversia delicata e complessa. Una disputa, definita «pelosa» per le sue implicazioni intricate e non del tutto trasparenti, che coinvolse figure reticenti e altre accusate di collusione. L’indignazione e l’imbarazzo derivarono anche dal coinvolgimento dell’erede del defunto don Pellati, il parroco benefattore che aveva contribuito in modo efficace all’opera con beni propri. Nonostante queste difficoltà, don Domenico Rossi si distinse per la sua dedizione e il suo impegno, e si prodigò ampiamente per abbellire la «Madunina», superando gli ostacoli di varia natura.
Nel 1863, a testimonianza del suo ardore e della volontà di migliorare l’accoglienza nel santuario, fece erigere un piccolo stabile adiacente, destinato a fungere da alloggio per il rettore. Questo gesto rilevava l’importanza di garantire una presenza costante e qualificata all’interno del luogo sacro.
Nel vivace ambiente sociale ed ecclesiale del 1874, il carismatico parroco don Domenico Rossi, uomo d’immensa fede e d’indubbie capacità organizzative, si distingueva per il suo approccio gentile ma fermo, una combinazione che gli permetteva di navigare le complessità della vita parrocchiale senza compromettere i suoi principi e il suo fervore spirituale. Non faceva sconti e non andava a braccetto con nessuno; di certo, non era uno che le mandava a dire: era, anzi, noto per la schiettezza delle sue posizioni. Anche contro l’arbitrio possente e arrogante che caratterizzò sempre l’autorità di qualunque genere. A cui si accostò anche la sua elevata considerazione, all’epoca poco professata, per il mondo femminile.
Ovviamente conscio dell’importanza cruciale del ruolo della Chiesa all’interno della società, soprattutto nel campo dell’educazione e dell’assistenza sociale, don Rossi si propose di rafforzare questa presenza, ritenendo fondamentale l’apporto di religiose dedicate. Animato da questa visione, intraprese un’azione concreta: contattò la Suor Superiora di Vercelli, Adele Giannetti, al fine di richiedere il sostegno delle Suore della Carità. Questa congregazione, fondata nel lontano 1799 dalla beata Giovanna Antida Thouret, si era distinta fin dalla sua nascita per la dedizione all’istruzione e al servizio dei poveri, incarnando perfettamente lo spirito di carità e di aiuto al prossimo che don Rossi desiderava infondere nella sua parrocchia.
Le Suore della Carità, una volta giunte a Valenza, avrebbero svolto un ruolo fondamentale in diverse attività parrocchiali, tra cui la catechesi, l’animazione liturgica, l’insegnamento dei canti religiosi, la cura e l’educazione delle fanciulle, e una vasta gamma di altri servizi essenziali per il benessere della collettività. Per accogliere le Suore della Carità, fu individuato un fabbricato rustico situato nell’attuale piazza Giovanni Lanza (via Cavour). Questo edificio, generosamente donato alla chiesa dalla signora Pastore, divenne la loro sede, un punto di riferimento per tutte le attività che avrebbero intrapreso in città. L’istituzione religiosa femminile, in un’ottica di valorizzazione dei principi tradizionali della famiglia e di esaltazione della santità domestica, venne significativamente denominata «Sacra Famiglia». Un nome che evocava l’importanza dei valori familiari (erano ancora di moda) e che si poneva come un modello di riferimento per la società valenzana.
Le Suore della Sacra Famiglia, dimostrando una notevole apertura e un’ammirevole capacità di adattamento, si prepararono ad accogliere le sfide della modernità, seguendo con attenzione gli indirizzi e le linee guida del nuovo Papa Leone XIII, succeduto a Pio IX nel 1878. Con un impegno e una forza di volontà che apparirebbero quasi incredibili nel contesto odierno, innamorate di Dio con la giusta dose di saggezza e serenità, si dedicarono anima e corpo al servizio della comunità valenzana, contribuendo in maniera efficace alla sua crescita spirituale e sociale. Il loro lavoro rappresentò una vera e propria missione, un dono inestimabile per Valenza.
Parallelamente a questi importanti sviluppi nella vita parrocchiale e religiosa della città, tra il 1884 e il 1887, si svolsero anche ammirevoli innovazioni e significativi lavori di restauro e di abbellimento all’interno del Duomo. Gli artisti Boasso e Morgari si dedicarono al rifacimento delle decorazioni interne, riprendendo e reinterpretando le opere realizzate nel 1817 dal pittore Filippo Comerio. La supervisione di questi importanti lavori fu affidata all’abile architetto Carlo Ceppi, garantendo così la qualità e la coerenza estetica dell’intervento.
Il Duomo, con le sue nuove decorazioni, divenne un simbolo rinnovato della fede e della bellezza artistica di Valenza. Il completamento dell’altare maggiore, insieme a una serie di altre rifiniture artistiche e funzionali, segnò la fine di un lungo e laborioso percorso per la chiesa principale di Valenza. Finalmente, il 20 ottobre 1888, la «Cattedrale valenzana» venne consacrata solennemente, una giornata di festa e profonda spiritualità per tutta la comunità valenzana. La gioia per il moderno luogo di culto, tuttavia, non significò la fine dei lavori. Nel 1890, l’architetto Moriggi, esperto e attento ai dettagli, fu incaricato di supervisionare alcuni restauri necessari per preservare la bellezza e la solidità della struttura. Questi interventi si aggiunsero ai radicali lavori di pavimentazione che erano stati eseguiti durante la seconda metà del XIX secolo, volti a rendere la cattedrale più accogliente e accessibile ai fedeli.
La devozione a don Domenico Rossi, una figura carismatica che aveva saputo conquistare l’affetto e la stima della popolazione locale, era sempre più vivo nei cuori dei valenzani. Fu quindi tanto più sconcertante ricordare che, nel lontano 1858, sovrapponendo realtà e finzione, un individuo paranoico di nome Evasio Pronzati avesse osato attentare alla sua vita. Un gesto folle e inspiegabile che non scalfì minimamente la reputazione e l’operato del solerte sacerdote. Al contrario, nel 1888, la Santa Sede riconobbe pubblicamente i suoi meriti e l’impegno profuso, premiando don Domenico Rossi con un’onorificenza pontificia, un segno tangibile della sua dedizione e del suo impegno verso il prossimo. L’insigne celere ed efficace sacerdote, noto per la sua capacità di iniettare dosi essenziali di pragmatismo e realismo nelle questioni sociali, immergendosi anche in cause urticanti d’insufficienza culturale in cui il laicismo voleva cacciare la sapienza antica del Vangelo, volò in cielo nel 1894, lasciando un vuoto incolmabile e un universale cordoglio. La sua scomparsa fu sentita da tutta Valenza, a testimonianza del profondo legame che lo univa alla sua gente.
Due anni dopo la sua morte, nel 1896, la guida spirituale della parrocchia passò nelle mani del parroco Giuseppe Pagella di Lobbi, proveniente dall’importante posizione di rettore dell’Ospedale civile di Alessandria. Don Pagella si presentò come un uomo moderno, dotato di un’elevata cultura teologica e sociale, caratteristiche che lo resero subito popolare e ammirato. Visionario e progressista non mollava sui temi etici, fedele ad una certa morale, si fece promotore degli oratori giovanili, convinto che l’educazione, lo sport e la formazione dei giovani fossero fondamentali per il futuro della comunità. Ma la sua ambizione più grande era quella di trasformare Valenza in una città all’avanguardia, al passo con i tempi.
Sognava una Valenza moderna, capace di esprimere realisticamente un nuovo mondo e un nuovo secolo; entrando in sintonia con un mondo culturale diverso dal suo, accarezzando quello non cattolico senza attenersi a copioni già scritti, forse anche con una timida apertura al materialismo storico, anche se poco dialettico, in un’epoca con un mutato assetto sociale, che sarà sempre più laica e meno credente.
La sua visione, audace e innovativa, puntava a fare di Valenza un esempio di progresso e modernità nel panorama collettivo con la lungimiranza di pensare a un futuro dove il diritto a ottenere il fine naturale dell’uomo fosse riconosciuto a tutti. Un religioso capace come pochi di offrire un esempio di emancipazione e indipendenza intellettuale, che non farà sconti a nessuno quando si tratterà di ingiustizia. Per questo motivo, chi governava la città era perdente sul piano del decisionismo rispetto alla Chiesa locale.
Purtroppo l’oblio sarà molto più forte della memoria storica di questi autorevoli religiosi.
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