Gli eroi valenzani nella battaglia di Adua
Un nuovo approfondimento del professor Maggiora
VALENZA – Le nefaste conseguenze di una politica coloniale italiana avventurista e presuntuosa, improntata a un’audacia che rasentava l’irrazionalità e dispendiosa in modo sproporzionato rispetto alle reali forze economiche e militari di cui l’Italia disponeva, si concretizzarono in modo tragico il 1º marzo 1896 nei polverosi dintorni della città etiope di Adua. In quel luogo, le truppe italiane, mal guidate e peggio equipaggiate, si scontrarono con l’esercito abissino del negus Menelik II, un sovrano astuto e determinato a difendere l’indipendenza del suo regno, profondamente ostile alla nostra civiltà. L’esito dello scontro fu una catastrofe senza precedenti: gli italiani subirono una sconfitta umiliante, la più grave mai patita da un esercito europeo sul suolo africano nel corso del XIX secolo.
Questa disfatta epocale non solo arrestò bruscamente, per molti anni a venire, le ambizioni coloniali italiane in quel territorio, considerate un «male necessario», ma ebbe anche ripercussioni profonde sul piano interno, scuotendo le fondamenta del governo Crispi e alimentando un acceso dibattito politico e sociale sulle ragioni di un fallimento tanto clamoroso di questa immonda impresa bellica tanto evocata.
In totale, le forze italiane schierate sul campo di battaglia comprendevano 550 ufficiali e 10.550 soldati nazionali, a cui si aggiungevano 6.700 soldati indigeni, gli àscari, per un totale complessivo di 17.800 uomini e 56 pezzi d’artiglieria. Tuttavia, la consistenza numerica non corrispondeva affatto alla preparazione e alla motivazione delle truppe. La maggioranza dei reparti italiani era composta da militari di leva, giovani strappati alle loro case e alle loro famiglie e sorteggiati dai loro reggimenti in Italia per prestare servizio in Africa. In molti casi, l’invio in Africa era considerato una vera e propria punizione disciplinare. Incredibile!
Questi soldati, provenienti da ambienti sociali ed economici disparati, mancavano quasi totalmente di spirito di corpo, di esperienza bellica e, soprattutto, di un addestramento adeguato all’ambiente ostile e impervio in cui si trovavano a operare. L’ardore patriottico era spesso soppiantato dalla paura e dalla disillusione, rendendo i soldati vulnerabili e incapaci di affrontare le difficoltà della campagna africana: c’erano più affermazioni di principi che ragionamenti di buon senso. L’equipaggiamento era inadeguato, le comunicazioni inefficienti e la logistica precaria, fattori che contribuirono in modo paradossale e determinante al disastro di Adua.
La battaglia di Adua, uno scontro tragico e decisivo nella storia coloniale italiana, si rivelò un bagno di sangue di proporzioni inaspettate, portando via con sé più vite italiane di quanto non avesse fatto l’intero periodo del Risorgimento. Le stime, pur dolorose nella loro precisione, parlarono di una carneficina di circa 7.000 soldati italiani caduti sul campo, un numero spaventoso che includeva la perdita di due generali di spicco, Arimondi e Dabormida, simboli di un’ambizione coloniale infranta. A questo bilancio già pesante si aggiunsero circa 1.500 feriti, uomini straziati nel corpo e nell’anima, e 3.000 prigionieri, molti dei quali destinati a un futuro incerto e doloroso nelle terre dell’Africa orientale.
Anche la città di Valenza, come tante altre in Italia, tra molti bisbigli e sentiti dire, fu colpita duramente dalla notizia della disfatta. Fu costretta a contare la perdita di alcuni dei suoi concittadini, giovani martiri strappati alle loro famiglie e ai loro affetti da una guerra percepita da molti come inutile e ingiusta. Tra questi caduti, due figure emersero come valorosi, seppur eroi tragici di un conflitto sfortunato: Lorenzo Compiano e Alessandro Bolla, i cui nomi sarebbero stati per sempre legati alla memoria di Adua.
Lorenzo Compiano, nato nel 1847, era un uomo di indubbio talento e ambizione. A soli 19 anni, dimostrando una precoce maturità e una spiccata attitudine militare, aveva già raggiunto il grado di sottotenente dei bersaglieri, un corpo d’élite dell’esercito italiano. La sua carriera fu costellata di successi e rapidi avanzamenti. Nel 1873 fu promosso tenente, un ulteriore riconoscimento delle sue capacità. Desideroso di affinare le sue competenze e di ampliare i suoi orizzonti strategici, frequentò la prestigiosa Scuola di Guerra, un’istituzione che formava i futuri leader dell’esercito. Al termine dei suoi studi, ottenne il grado di capitano, un ulteriore passo verso una carriera promettente.
Compiano era noto non solo per la sua abilità tattica e il suo coraggio, ma anche per i suoi studi accurati e la sua meticolosa preparazione. Per un lungo periodo, fu addetto all’Istituto Geografico di Firenze, un incarico che gli permise di mettere a frutto le sue conoscenze e la sua passione per la geografia. In questo periodo, compì numerosi lavori topografici di grande importanza, che gli valsero l’ammirazione dei suoi superiori e dei suoi colleghi.
Era orgoglioso dei suoi risultati e si compiaceva, meritamente, dei riconoscimenti ottenuti. La sua carriera proseguì in modo brillante, con promozioni rapide e costanti. Prima maggiore e poco dopo tenente colonnello, Compiano sembrava destinato a raggiungere i vertici dell’esercito italiano, una carriera che prometteva onore e gloria. Purtroppo, il destino aveva in serbo per lui un’altra sorte, un tragico epilogo sulle aride terre d’Africa. Illuso forse da un sogno glorioso che doveva dileguarsi laggiù, nel triste soggiorno al campo di Adi Cajé e sul terreno del disastro di Adua, o Abba Garima.
Il cuore di un uomo in partenza per la guerra è un crogiolo di speranze e timori, un impasto di dovere e affetto. Lasciò Roma, avvolto nell’aura di grandezza della città eterna, con l’ardente desiderio di ricongiungersi ai suoi commilitoni, quei fratelli d’arme con cui aveva condiviso addestramenti e giuramenti.
Immaginava di ritrovarli là, sull’arida terra africana, uniti da un solo scopo, pronti a riversare sul nemico tutta la loro furia, un corpo solo proteso verso la vittoria. Li immaginava concordi, animati da un fervore patriottico che avrebbe spazzato via ogni ostacolo. Il pensiero di un’azione gloriosa lo galvanizzava, lo proiettava in un futuro di onore e riscatto. Quel cuore, nutrito di ideali e animato da un patriottismo sincero, deve invece aver subito un colpo devastante. Il suo animo, temprato dalla disciplina militare, ma ancora intatto nella sua purezza, all’arrivo fu scosso dalle fondamenta.
Appena sbarcato su quella terra funesta, intrisa di presagi nefasti, la cruda realtà si manifestò in tutta la sua brutalità. Non trovò l’ordine e la disciplina che si aspettava, non scorse nei volti dei soldati la fiamma della determinazione. Al contrario, fu investito da un’ondata di disordine, sfiducia e disperazione che permeava ogni cosa, che affliggeva le anime di quelle falangi, destinate, in quello scenario tempestoso, più che alla gloria, a una morte anonima e senza senso.
Giunse a Massaua, porto d’accesso a un inferno in terra, al comando di un battaglione raccogliticcio: un’accozzaglia di soldati nuovi, inesperti e mal equipaggiati, che gli furono affidati senza preavviso. La responsabilità gravava sulle sue spalle come un macigno. Il disordine dilagante, la mancanza di preparazione, la manifesta incapacità di affrontare la sfida che li attendeva, lo impressionarono, scavando un solco profondo nel suo animo. Prevedeva, con lucida chiarezza, l’abisso nel quale rischiavano di precipitare, un abisso di sconfitta e morte che avrebbe inghiottito uomini e speranze. E fu proprio il suo quel battaglione, sfortunato e abbandonato al suo destino, al quale vennero a mancare persino gli indumenti e i copricapo, simboli di un’identità e di una dignità che stavano già svanendo. Privati persino del necessario per proteggersi dal sole cocente e dal clima inclemente, questi uomini sembravano già condannati.
Senza indugi, venne subito inoltrato ad Adl–Cajè, un avamposto isolato e sperduto,. con l’ordine di dirigere i lavori di fortificazione, un’opera disperata per arginare l’avanzata del nemico. Da qui, in quest’angolo remoto di mondo, lontano dagli affetti e dalla sicurezza di casa, scrisse varie volte alla madre e ai fratelli, cercando di rassicurarli, rincorandoli con quella giovialità di espressioni che era in lui caratteristica, una maschera di ottimismo che celava le sue vere preoccupazioni su ciò che aveva intorno. Voleva proteggerli dalla verità, preservare la loro serenità, sapendo che ogni sua parola sarebbe stata accolta con ansia e amore.
Il 26 Febbraio 1896 si trovava a Entisciò, dopo il combattimento di Mai-Maret del giorno prima, pronto a entrare in linea di battaglia nella fatale giornata del 1° Marzo. La battaglia si profilava all’orizzonte, un evento ineluttabile che avrebbe segnato per sempre la sua vita e quella dei suoi uomini.
Il 2° battaglione bersaglieri (1° Rgt Fanteria del Col. Stevani) schierato sulle alture di Adi Dichi-MonteRajo, un’altra unità destinata a un tragico destino, al comando del tenente colonnello Compiano, faceva parte della brigata Arimondi, una delle tre brigate schierate sul campo di battaglia. La 1° Brigata Fanteria del Gen. Arimondi, distendendosi nel centro del campo di operazione, aveva il compito cruciale di collegare la brigata Albertone, posizionata su un fianco, con quella Dabormida, sull’altro. Una posizione strategica, ma anche estremamente vulnerabile, esposta al fuoco concentrato del nemico. La sua posizione nel cuore dello schieramento ne faceva un bersaglio primario, un nodo cruciale da proteggere a ogni costo. Il destino di molti era appeso a quel fragile collegamento. La situazione sul campo, però, si deteriorava rapidamente.
La brigata, che disperatamente sperava di essere rinforzata dalle brigate amiche, si trovava sull’orlo di una rotta disastrosa, dopo aver resistito eroicamente per due lunghe e sanguinose ore. La speranza di un cambio di fortuna si affievoliva ad ogni minuto che passava. Verso le nove del mattino, anche Compiano e i suoi uomini si imbatterono nelle prime avanguardie nemiche. Tuttavia, le possibilità di infliggere danni significativi erano drasticamente limitate. I soldati nemici trovavano un’inaspettata, quanto involontaria, protezione nei soldati italiani stessi, che, in preda al panico, si ritiravano precipitosamente, attraversando diagonalmente l’intero fronte della brigata a partire dalle pendici del Monte Raio. La scena era caotica, con uomini che correvano in direzioni opposte, alimentando ulteriormente la confusione casomai ce ne fosse ancora bisogno.
La distruzione della brigata Albertone aveva segnato una svolta cruciale. Gli sforzi degli scioani, galvanizzati dalla vittoria, si concentrarono quindi sulla brigata Arimondi, bersagliandola con un attacco feroce sul fianco destro. La manovra era studiata per sbilanciare le linee italiane e creare ulteriore scompiglio. Il 9° battaglione fanteria fu il primo a sopportare il peso dell’attacco nemico. Una relazione ufficiosa, giunta ai vertici militari con toni sommari e tragici, stimava che fossero rimasti in piedi appena cinque o sei soldati del battaglione, un numero irrisorio rispetto alla forza originaria.
La carneficina era stata spaventosa. In seguito, quando il nemico, rinvigorito da nuovi rinforzi, ebbro di trionfo e accecato dalla furia omicida del brutale massacro appena compiuto, riversò tutta la sua violenza sul 2° bersaglieri di Compiano, si consumò la tragica morte del valente valenzano: un eroe caduto sul campo.
Ciò che restava dei reparti della brigata Arimondi si trovava in uno stato di completa disorganizzazione. I soldati si sparpagliavano in piccoli gruppi, si riunivano sporadicamente, si spostavano freneticamente alla ricerca di un riparo, fuggendo in maniera disordinata e priva di una strategia coerente. La catena di comando era ormai spezzata. Non aveva più senso impartire ordini, in quanto nessuno era in grado di ascoltarli o eseguirli. Il combattimento si era trasformato in una zuffa tremenda e selvaggia, una mischia confusa in cui gli uomini si limitavano a uccidere e ad essere uccisi, senza un apparente controllo o razionalità. La ferocia, presente in entrambe le fazioni in lotta, sembrava guidare gli uomini come automi privi di volontà.
Quale che sia la diagnosi più corretta, una cosa è sicura: molti dei reduci, anche a distanza di anni da quell’esperienza traumatica, faticarono a trovare una spiegazione logica a quella rabbia bestiale e a quell’insensatezza che trascendeva persino l’istinto primario di sopravvivenza. Non era una lotta per la vita, ma un abisso di violenza e morte, la follia era inarrestabile con sconcezze di ogni genere.
Un’ombra di lutto e sgomento avvolse Massaua, una città marchiata dal ricordo di una battaglia disastrosa. Un testimone indiretto di quella tragedia, aveva raccolto dalle labbra dei superstiti frammenti di quell’orrore, storie che scuotevano l’anima e facevano fremere il cuore.
Con la voce rotta dall’emozione, narrò la fine del Colonnello Compiano, una fine ingiusta e straziante. «Povero Lorenzo», iniziò con la voce tremante, «era da giorni preda violenti disturbi gastrici, tormentato da crampi lancinanti. Le notti umide e fredde di quella terra ostile, un morso gelido nelle ossa, non facevano altro che esacerbare le sue sofferenze. Era visibilmente sfinito, prostrato dalla febbre e dalla debolezza. Portava ancora l’abito di panno che usava in Italia, inadatto al clima aspro di quelle terre. E per proteggersi dal freddo penetrante e dall’umidità implacabile, indossava ai polsi spesse manopole di lana, un fragile baluardo contro le intemperie. Il mattino del 1° Marzo, un giorno maledetto, verso le nove del mattino, gli scioani lanciarono il loro attacco feroce. Lorenzo fu ferito quasi subito, una freccia sibilante lo colpì alla coscia. Nonostante il dolore lancinante, dimostrando un coraggio sovrumano, discese dal muletto che lo trasportava a fatica. Con le poche forze che gli rimanevano, continuò a difendersi strenuamente, cercando disperatamente di rannodare intorno a sé i resti del suo battaglione. Era una battaglia impari, una lotta disperata contro un nemico soverchiante, e le file dei suoi uomini si assottigliavano di ora in ora. Poi, l’ineluttabile accadde. Ferito un’altra volta, un colpo fatale che gli spezzò le gambe, cadde a terra, sconfitto, ma non domo. E lì, sulla terra rossa intrisa di sangue, il suo fato si compì, indissolubilmente legato a quello del suo battaglione. Il suo battaglione, decimato e soverchiato, non poté più proteggerlo, non poté più contenderlo alla furia della cavalleria galla che lo finì a colpi di lancia. Un massacro senza pietà, un epilogo brutale per un uomo valoroso e per i suoi soldati».
La voce del narratore si spense in un sussurro, lasciando dietro di sé solo il silenzio pesante del ricordo e l’eco straziante di una sconfitta e di un’inutile carneficina. Così morì gloriosamente il pluridecorato Cav. Lorenzo Compiano, animo nobile e mite, che ebbe l’ammirazione e l’affetto di tanti amici, della madre e della famiglia che lo piansero per sempre.
La sua memoria resterà vivida nel cuore di chi lo conobbe, un ricordo intriso di affabilità e giovialità costante, tratti che lo hanno contraddistinto in ogni circostanza. La sua presenza irradiava una positività contagiosa, rendendolo un compagno apprezzato e un amico sincero.
Ed eccoci a commemorare un’altra figura di spicco, una delle vittime più illustri di quel conflitto lontano, un altro sacrificio consumato sull’altare del dovere. Ci troviamo di fronte al ricordo del Maggiore Cavaliere Alessandro Bolla, un valenzano, la cui vita fu tragicamente spezzata nella sciagura africana. Un uomo il cui coraggio e spirito di servizio lo spinsero fino all’estremo sacrificio.
Alessandro Bolla vide la luce a Valenza nel 1847, figlio di Felice Bolla e Marta Garavelli, una famiglia radicata nel territorio e rispettata dalla comunità. La sua formazione scolastica iniziò tra le mura del Collegio di San Luca a Milano, un istituto rinomato per la sua disciplina e rigore accademico. Da lì, il giovane Alessandro intraprese la strada della carriera militare, accedendo alla prestigiosa Scuola Militare.
Nel 1867, con il grado di sottotenente, entrò a far parte del corpo dei bersaglieri, una specialità dell’esercito italiano nota per la sua rapidità, agilità e spirito combattivo. Il 1870 segnò un momento cruciale nella sua vita e nella storia d’Italia: partecipò alla presa di Porta Pia, l’atto finale del Risorgimento che sancì l’annessione di Roma al Regno d’Italia. In quel combattimento, dimostrò un valore eccezionale, tanto da meritarsi la medaglia al valore militare, un riconoscimento al suo coraggio e abnegazione.
Animato da un profondo amore per la sua professione, Alessandro Bolla continuò la sua carriera militare con dedizione e impegno. Per un lungo periodo, prestò servizio di guarnigione a Livorno, una città portuale vivace e cosmopolita. Lì, si integrò perfettamente nella comunità locale, stringendo amicizie durature e guadagnandosi la stima e l’affetto di molti.
Nel dicembre del 1895, spinto da un senso del dovere ineludibile, partì per l’Africa, un continente allora tormentato da conflitti e ambizioni coloniali. Lì, in quelle terre lontane e insidiose, il suo destino si sarebbe compiuto, intrecciandosi con il fato di tante altre nobili esistenze.
A Livorno, il Maggiore Bolla (4°reggimento bersaglieri) era una figura notissima e amata da tutti. Un giornale locale, nel dedicargli un commosso necrologio, scrisse che lo si sarebbe potuto considerare a tutti gli effetti un livornese, se non fosse stato per la sua inconfondibile cadenza valenzana, che tradiva le sue origini piemontesi. Era un uomo che portava con orgoglio le sue radici, ma che aveva saputo conquistare il cuore dei livornesi con la sua umanità e il suo spirito aperto.
Un evento sfortunato segnò i suoi ultimi mesi a Livorno: poco prima di presentare la domanda per essere inviato in Africa, fu vittima di una brutta caduta da cavallo. Le conseguenze di quell’incidente furono più gravi del previsto, e quando partì per la sua missione, non si era ancora completamente ripreso da quella pericolosa caduta. Nonostante il dolore e la convalescenza non ancora ultimata, il Maggiore Bolla non esitò a rispondere alla chiamata del dovere, dimostrando un coraggio e una determinazione che lo onorarono.
Il sole picchiava impietoso sulla piazza d’armi di Siena, ma non attenuava l’ardore nei cuori dei soldati, quando il capitano Alessandro Bolla, un uomo di trent’anni, dal volto segnato da un’espressione di serena fermezza, si preparava a partire. Era stato scelto per guidare una compagnia, selezionata a sorte tra i ranghi della Brigata Siena, e destinata a rinforzare il 14° battaglione d’Africa, un’unità già provata da duri combattimenti e bisognosa di uomini validi.
Un’aria di triste solennità aleggiava nell’aria. Bolla, presago dei pericoli incombenti, consapevole del destino forse segnato che lo attendeva su quelle terre lontane, si congedò dai commilitoni che rimanevano in patria con parole che vibrarono nell’anima di ciascuno. La sua voce, ferma ma intrisa di emozione, parlò di onore, di sacrificio e di amore per la patria. A chi lo seguiva in quella pericolosa missione, promise solennemente che avrebbe insegnato loro come si doveva morire per l’Italia, un’affermazione che gelò il sangue nelle vene, ma che al contempo infiammò gli animi di un coraggio quasi fanatico.
E il povero Alessandro, ingenuo idealista, mantenne la sua promessa, tragicamente. Come tanti altri giovani illusi, vedeva l’Italia sua non solo tra sue le verdi colline, ma anche laggiù, nelle desolate e tristi arene africane, terre aride e spietate che la follia criminosa di politici corrotti e spregiudicati speculatori di borsa avevano trasformato in un immenso cimitero, coprendole di innumerevoli cadaveri di giovani vite spezzate.
Dopo una lunga ed estenuante traversata, Bolla giunse in Africa. La sua competenza e il suo valore non tardarono a essere riconosciuti e premiati: fu promosso al grado di maggiore. La notifica della promozione gli fu recata dal Tenente Colonnello Compiano, un suo concittadino di grande esperienza e umanità. L’incontro tra i due valenzani, alla fine di gennaio ad Adì-Oajé, fu un momento commovente, segnato da un reciproco rispetto e dalla consapevolezza dei pericoli che li attendevano. Scambiarono poche parole, ma il loro sguardo disse tutto: la determinazione a compiere il proprio dovere, la paura della morte, la speranza di un futuro migliore, senza convincersi del tutto ma rassicurandosi almeno un po’.
Il 14° battaglione, ora sotto la sua parziale responsabilità, era parte integrante della gloriosa brigata Dabormida, un’unità che distenderà storia ed eroismo, ma anche immane sofferenza, resistendo eroicamente sotto il fuoco e la ferocia rabbiosa del nemico per un’intera giornata, pagando un prezzo altissimo: il suo comandante generale cadde in battaglia, insieme a quasi tutti gli ufficiali, e circa l’ottanta per cento dei suoi soldati trovarono la morte su quel campo di battaglia. Un’eredità pesante, un fardello di dolore e di onore che gravava sulle spalle dei nuovi arrivati.
Il Maggiore Bolla, pur non avendo avuto un comando diretto durante la disastrosa giornata, era stato ferito la prima volta al braccio destro mentre si trovava lontano dalla prima linea dei combattimenti. Soccorso a un vicino posto di medicazione, non si rassegnò e raggiunse la sua brigata e, quando più intenso era l’impegno del nemico, fu visto cadere colpito alle gambe e al petto.
Crollò a terra, la divisa imbrattata di rosso, un grido strozzato che si perse nel caos assordante dello scontro. I suoi compagni, con un’estrema prova di coraggio, lo trascinarono via dalla zona più esposta, sperando disperatamente di strapparlo alla morte. Il medico da campo si affrettò, frugando nella sua borsa per trovare qualcosa, qualsiasi cosa, che potesse arginare l’emorragia. Provò a tamponare le ferite, ma il sangue continuava a fluire, inesorabile.
La vita lo stava abbandonando. Nonostante il dolore lancinante, trovò la forza di sollevare lo sguardo verso i volti angosciati dei suoi commilitoni, amici, fratelli d’armi che lo avevano visto combattere con coraggio e onore. Una lacrima solitaria gli rigò la guancia sporca di polvere e sangue. Spirò lentamente, il respiro affannoso che si spegneva a poco a poco, tra i singhiozzi e il compianto dei presenti. Era amato per la sua munificenza, per il suo spirito indomito e per la sua abnegazione.
Prima di esalare l’ultimo respiro, con voce flebile ma carica di determinazione, raccomandò loro il suo bene più prezioso: suo figlio, il suo povero Giannino. Lo lasciava solo al mondo, un bambino di soli dodici anni, orfano e abbandonato al suo destino. La madre, prematuramente scomparsa, non aveva potuto alleviare il peso di questo momento. Giannino era rimasto solo, senza il conforto di un abbraccio materno, senza una mano che lo guidasse.
La notizia della morte di Bolla si diffuse rapidamente a Valenza, lasciando un vuoto incolmabile. Un giornale locale, con parole sentite e solenni, gli dedicò un commosso necrologio contribuendo a rendere il tutto ancora più doloroso: «A te, martire del dovere, caduto nell’adempimento del tuo giuramento, la cui nobile coscienza della giusta causa, pur non abbellendo la morte tra l’ebbrezza della battaglia, ci lascia un’eredità di coraggio e abnegazione. A te, offriamo la nostra ammirazione e gratitudine eterna. Al tuo figlio, a chi ti piange con il cuore spezzato, offriamo il conforto del tuo eroico esempio, l’eredità incancellabile della tua virtù. Che la tua memoria sia faro e guida per le generazioni future».
Altre, più oscure e non meno eroiche vittime della guerra in Africa, lasciarono di loro un pietoso rimpianto in Valenza.
Persero la vita nella battaglia di Adua oltre al Tenente Colonnello Compiano e al Maggiore Bolla, anche i valenzani: Capelli Vincenzo, bersagliere, 1° reggimento, 1° battaglione; Prato Carlo, soldato del 13° Battaglione 4a Compagnia; Tortrino Giacomo, Caporale Maggiore del 10° Battaglione, 2a Compagnia; Bisonte Bernardino, soldato nel 2° fanteria, 11° battaglione.
Purtroppo, come il solito, non mancarono indecorose stridule denunce e insinuazioni (variante paranoide, altro che amor di Patria) per vilipendere la memoria di questi nostri immani martiri, ma senza riuscirci.