Gli anni Venti del Novecento a Valenza
L'approfondimento del professor Maggiora
VALENZA – Dopo il 4 novembre 1918, quando la Prima Guerra Mondiale giunse finalmente al suo epilogo, i reduci che tornavano dalla vita di trincea si trovarono di fronte a un panorama tutt’altro che incoraggiante. La fine del conflitto non aveva portato con sé le attese soluzioni ai problemi che già da anni affliggevano il Paese. Al contrario, la situazione sembrava essersi ulteriormente aggravata, rendendo ancor più impellente la necessità di trovare risposte concrete. Nonostante quasi tutti fossero diventati entusiasti superstiti della Grande Guerra – inclusi coloro che l’avevano a lungo aspramente osteggiata e perfino i “prodi” imboscati – la nazione usciva dal lungo e cruento confronto in uno stato di profonda povertà e maltrattata dalle principali potenze vincitrici, la Francia e la Gran Bretagna. L’economia e il tessuto sociale del Paese erano stati profondamente scossi, mentre il governo di Roma non riusciva a trovare la giusta sintonia per superare le divisioni politiche interne. I partiti, incapaci di individuare forme di collaborazione fattiva, contribuivano a creare un clima di grave instabilità, in cui le soluzioni prospettate dal Fascismo di Mussolini, nato proprio nel 1919, iniziavano a farsi sempre più spazio. La frammentazione politica e l’incapacità della classe dirigente di offrire risposte concrete alle urgenti necessità della nazione fornirono così il terreno fertile per l’ascesa di quel movimento che, di lì a pochi anni, avrebbe radicalmente trasformato il volto dell’Italia.
I socialisti erano visti da molti come elementi disgregatori del sentimento patriottico nazionale. Inoltre, i contadini che avevano subito vessazioni e ingiustizie non accettavano l’idea della socializzazione della terra, temendo di perdere i loro piccoli appezzamenti. Queste tensioni e paure alimentavano il malcontento popolare anche a Valenza e spingevano molti a unirsi ai movimenti fascisti, visti come una forza in grado di porre rimedio a tali problemi e di guidare la “riscossa” contro un sistema percepito come ingiusto.
Nelle elezioni del novembre 1919, che si svolsero con il sistema proporzionale, si fronteggiarono diversi schieramenti politici. Tra questi emerse il nuovo Partito Popolare, fondato da Luigi Sturzo dopo anni di astensionismo dalla vita politica. Anche a Valenza il Partito Popolare aveva una propria sezione locale, chiamata sprezzantemente “PiPi” dai socialisti, e un proprio organo di stampa, il “Corriere del Collegio di Valenza”, nato già nel 1915 e soprannominato “Corriere dei preti” dai suoi avversari. Tuttavia, nell’alessandrino la radice laico-socialista rimaneva forte e si rivelava vincente: ben sei candidati di tale orientamento venivano eletti, tra cui il valenzano Paolo De Michelis, segretario della Camera del Lavoro di Alessandria, e il sindacalista socialista contadino locale Francesco Tassinari.
A Valenza stessa, i socialisti ottenevano il 67% dei voti, mentre i popolari si fermavano al 9%, i liberali al 12% e gli agrari all’8%. Ciò testimoniava da un lato la persistente influenza delle forze di sinistra (Il 22 maggio 1920 veniva inaugurata la Casa del Popolo), ma dall’altro anche l’emergere di nuove realtà politiche, come il Partito Popolare, in grado di attrarre una parte dell’elettorato. Questo complesso scenario politico rifletteva le profonde trasformazioni sociali ed economiche che stavano attraversando il Paese, tra spinte modernizzatrici e resistenze tradizionaliste, in un clima di crescente instabilità e conflittualità che avrebbe segnato gli anni a venire.
Intanto, i comizi fascisti continuavano a suscitare sempre più interesse in una parte della popolazione valenzana che prima era indifferente, anche se il Partito Socialista manteneva ancora il controllo dell’amministrazione comunale, con Oliva confermato sindaco. Tuttavia, la situazione cominciava a deteriorarsi nell’ultimo scorcio del 1920, quando nella città si verificano i primi scontri violenti tra fascisti e socialisti. Questi scontri erano il frutto di un’intricata rete di attriti politici, antipatie personali, manipolazioni e, soprattutto, di una grave mancanza di abilità nel gestire il conflitto. In questo contesto, la sezione socialista locale si riuniva in due assemblee animate per definire la linea da portare al XVII congresso nazionale del partito a Livorno dal 15 al 21 gennaio 1921 e che sarà teatro della scissione che porterà alla nascita del Partito Comunista d’Italia. Questa situazione di crescente polarizzazione politica e sociale rifletteva il clima di instabilità e incertezza che stava attraversando l’Italia in quel periodo, in cui forze contrapposte si confrontavano per la definizione del futuro assetto del Paese.
In generale, la situazione politica all’interno del Partito Socialista Italiano nella città di Valenza era alquanto eterogenea. La maggioranza degli iscritti storici era schierata con la corrente riformista guidata da Turati e Treves, i quali sostenevano una linea moderata e gradualista. Tuttavia, una sparuta minoranza aderiva alle posizioni più radicali e rivoluzionarie di Gramsci e Bordiga.
Successivamente, il 28 gennaio 1921, si teneva un’affollata assemblea generale dei socialisti valenzani per ascoltare la relazione dei delegati rientrati dal Congresso di Livorno, ovvero Barge e Sacchi. Ancora una volta, la maggioranza degli iscritti storici rimaneva fedele alla corrente riformista, mentre una ristretta minoranza, convinta delle tesi scissioniste, decideva di separarsi dalla sezione madre per fondare una nuova sezione locale del Partito Comunista.
L’evoluzione degli equilibri politici a Valenza rifletteva in modo evidente le profonde divisioni e turbolenze che attraversavano il Paese in quel delicato frangente storico, segnato dalla crisi del dopoguerra, dall’ascesa dei movimenti radicali e dall’affermarsi del fascismo come nuova forza politica rivoluzionaria conservatrice destinata a giocare un ruolo decisivo negli anni a venire.
Mentre la minaccia fascista si diffondeva, i socialisti valenzani, con atteggiamento critico e sprezzante, guardavano dall’alto verso il basso i loro avversari e i nuovi compagni comunisti, rivendicando un primato che esisteva solo nella loro immaginazione, più legato a questioni identitarie che a vere motivazioni politiche. Nel frattempo, l’agitazione rivoluzionaria, ardente ma inefficace, dei massimalisti e dei comunisti, spingeva sempre più a destra gran parte della borghesia, rispettabile ma troppo austera, e del mondo contadino valenzano, spaventato dalle minacce di rivolta, alimentando un crescente sentimento d’incertezza sul futuro.
Ma andiamo avanti con un certo ordine.
A Sartirana, in occasione dello sciopero generale del 20 marzo 1921, con l’intento di reprimere i lavoratori turbolenti, squadre d’azione provenienti da Casale, forse la città più fascista di tutta la provincia, e da Valenza pianificano una spedizione punitiva anti-sciopero, scatenando violenti scontri, che sembrano essere l’obiettivo reale di chi guida e incita al combattimento. Tra i vari feriti c’è lo squadrista Carletto Spagna, che viene trasportato con un autocarro all’ospedale di Valenza, dove muore due giorni dopo, si dice a causa di gravi emorragie. A questo punto, nulla lascia presagire nulla di buono per il futuro, in un contesto di crescente tensione e radicalizzazione degli schieramenti politici.
Lo scontro violento a Sartirana, con la morte dello squadrista Spagna, non fa che aggravare ulteriormente le tensioni e crea un clima di profonda incertezza sul destino della città. La veglia danzante organizzata dai socialisti nel loro locale vicino all’ospedale valenzano in via Pellizzari è una vera e propria provocazione che fa ribollire ancora di più gli animi già accesi dalla collera. Se l’intento era quello di suscitare una reazione, ebbene esso è stato pienamente raggiunto, anche se la reazione è di gran lunga maggiore di quanto ci si potesse attendere. Gli esaltati squadristi fascisti si precipitano con furia nel locale, distruggendo tutto ciò che trovano sul loro cammino e picchiano duramente i presenti.
La tensione a Valenza sale alle stelle, alimentando lo scontro a randellate tra le fazioni. Tra i gruppi che partecipano all’assalto, ci sono anche esponenti fascisti provenienti da Bosco Marengo, tra cui spicca la figura di Vincenzo Alferano. Costui sarebbe stato molto odiato in seguito, quando verrà a Valenza per collaborare alla creazione del locale Fascio di Combattimento, inaugurato poi il 24 luglio 1921 e a lui intitolato. Vincenzo, soprannominato “Cenzo”, è nato a Frugarolo il 16 aprile 1899. Ancora giovanissimo, a soli 17 anni, si è arruolato volontario per andare a combattere al fronte durante la Grande Guerra. Dopo il conflitto, durante il cosiddetto “Biennio Rosso”, Alferano è tra i primi ad aderire ai Fasci Italiani di Combattimento nell’alessandrino, entrando poi a far parte delle temute squadre d’azione fasciste. Il suo agire violento e la sua dedizione alla causa del fascismo lo hanno reso ben presto una figura di spicco, temuta e odiata dai suoi avversari politici, che non avrebbero mancato di fargli pagare caro il suo attivismo e il suo estremismo.
Da Alessandria, sono inviati alcuni camerati di provata fede fascista, tutti pronti a scendere in campo per affrontare e scontrarsi con gli avversari politici locali. Tra questi attivisti più fanatici e violenti del movimento, emerge la figura del giovane e sanguigno Alferano, il quale arriva il 5 aprile 1921 determinato a portare avanti con forza e determinazione l’ideologia del partito. La sua missione è di intimidire gli oppositori politici e affermare con la forza la supremazia del movimento fascista a Valenza.
L’uomo in questione si distingue per il suo spiccato protagonismo e il suo spirito combattivo. È solito affrontare i suoi avversari politici, i cosiddetti “rossi”, con grande determinazione e ardore. Vestito con una caratteristica camicia nera e indossando un vistoso cappello a falde larghe, anch’esso di colore nero, si aggira baldanzoso, da solo o accompagnato da pochi camerati fedeli, lungo Corso Garibaldi, noto come la “Cuntra Granda”, la principale arteria della città. La sua presenza e il suo atteggiamento sfidante non passano certo inosservati e infastidiscono notevolmente i suoi avversari. Questa continua tensione tra le diverse fazioni politiche porta inevitabilmente a scontri e tafferugli, con un progressivo innalzamento del livello di conflitto. È in questo clima di acuta conflittualità che si svolgono le elezioni politiche del 15 maggio 1921, nelle quali i socialisti riescono a ottenere un netto successo, conquistando 1.494 voti contro i 692 del Blocco Nazionale, i 256 dei comunisti e i 251 dei popolari. Nonostante questa importante vittoria della sinistra, l’uomo dal cappello nero e i suoi compagni non si arrendono e continuano la loro battaglia, giungendo infine alla tragica notte dell’imboscata.
In quella fatidica serata, l’uomo in questione, affiancato dai valenzani Ferraris e Facelli, dagli alessandrini Mantelli e Gorgoglini e da altri quattro fascisti, intraprende il consueto giro notturno di perlustrazione della città, incurante dei rischi e determinato a mantenere il suo impegno nella lotta politica. Sono le ore 22 dell’8 giugno 1921, è una mite notte d’inizio estate, quieta e silenziosa, ma, mentre il gruppo percorre viale Vicenza, Circonvallazione Est dei tempi, giunto nei pressi dell’ex Centrale del latte, vicino alla sede del circolo comunista in via Magenta, una breve ma violenta sparatoria scoppia nell’oscurità della notte e l’audace squadrista ventenne, già ferito in azioni precedenti, cade colpito dritto al cuore, probabilmente da due colpi di fucile da caccia.
Nell’attentato rimane coinvolto anche il segretario del Fascio locale, Mantelli, che riporta una ferita a una gamba. Questo efferato omicidio avviene nel momento più acuto dello scontro che i fascisti e i nazionalisti stanno conducendo contro socialisti, anarchici e comunisti. L’uccisione dello squadrista, probabilmente per mano di attivisti di sinistra, rappresenta un duro colpo per il movimento fascista alessandrino e alimenta ulteriormente la sete di vendetta. Quella breve ma cruenta sparatoria nel buio diventa così un momento simbolico, quasi preannuncia l’ascesa inarrestabile di Mussolini e del suo partito, che stanno guadagnando sempre più consenso e potere in un clima di crescente polarizzazione politica e sociale.
Le circostanze dell’omicidio Alferano resteranno misteriose anche dopo tre processi e molti arresti. Dopo l’avvenimento, i camerati non si lasciano sfuggire l’occasione e si scatena la violenta reazione delle squadracce fasciste che giungono in città dai paesi vicini, con bastonature, ferimenti e olio di ricino. Il Circolo Comunista e la Camera del Lavoro sono incendiati e quasi distrutti. Anche i consiglieri comunali socialisti subiscono violenze, e, dopo pochi giorni l’11 giugno 1921 il sindaco e la giunta danno le dimissioni, motivando la decisione con le violenze e le minacce avvenute contro di loro: un ulteriore passo verso lo scontro sociale. Il Prefetto nomina alla guida del Comune il commissario Pietro Farina, funzionario dell’amministrazione provinciale. Il segretario politico fascista locale è il cap. Marengo.
Di lì a poco, Il glorioso giornale socialista valenzano La Scure, ormai poco ricercato nelle edicole, cessa le pubblicazioni e il 10 luglio 1921, a consacrare il passaggio alla nuova era, viene pubblicato il primo numero del settimanale locale fascista La Mazza. Viene diretto per un certo tempo da Aldo Marchese, segretario politico della sezione fascista e membro della Federazione provinciale del Partito, e poi redatto dal segretario mandamentale dei sindacati e giornalista Mario Alberto Tuninetti, l’idealtipo dell’italiano del ventennio, verboso e gonfio di retorica diventerà vice federale di Alessandria e direttore de Il Piccolo durante la repubblica di Salò. Il fratello Dante Maria Tuninetti, un altro valenzano, sarà molto più importante di lui, rivestendo molte cariche prestigiose durante il regime.
Dopo circa un anno di commissariamento, il 18 giugno 1922 si svolgono di nuovo le elezioni amministrative comunali. La sensazione generale è quella di partecipare non a una competizione, ma a un funerale: i socialisti e i comunisti non sono in condizione di presentare una loro lista; i popolari, minacciati più volte, sono costretti a escludersi dalla competizione; è presentata, invece, la lista del Blocco (fascisti e liberali) e una lista strumentale d’ex combattenti senza possibilità d’effetto, appoggiata dallo stesso Blocco. L’affluenza alle urne è scarsa: è superato di poco il 50%. Viene eletto sindaco Luigi Vaccari, ex sindaco liberale-agrario dal 1905 al 1910, che si segnalerà come importante esponente della corrente agraria del fascismo. Gli assessori effettivi della nuova giunta comunale di Valenza sono Massimo Barbero, Edoardo Mazza, Livio Ratti, Mario Soave, che più avanti sarà sindaco e podestà, e gli assessori supplenti Giovanni Rolandi e Luigi Garavelli. Non sono tutti fascisti.
Quando Mussolini abolisce tutte le amministrazioni locali elettive, aumentando il potere dei prefetti e istituendo il podestà in tutti i comuni del Regno d’Italia, il sindaco Luigi Vaccari diventa il primo podestà di Valenza. Nominato con un decreto reale, egli cumula le funzioni attribuite prima al sindaco, alla giunta e al consiglio comunale, concentrando su di sé l’autorità secondo la concezione fascista dello Stato. Viene istituita anche la consulta municipale, organo dell’amministrazione comunale che ha funzioni esclusivamente consultive, in quanto solo il podestà può deliberare, con accenti da re Sole. Vaccari, nel 1923, è eletto in provincia e ne diventerà poi presidente e Mario Soave diviene così sindaco di Valenza.
Oltre ai socialisti e ai comunisti, tra gli avversari presi di mira dai fascisti valenzani ci sono i popolari, i seguaci del Partito Popolare Italiano di don Sturzo, quelli che, obbedendo alla loro coscienza morale, civile e religiosa, piuttosto che a certe direttive pastorali, non si piegano al regime intollerante. Tra i primi popolari valenzani spiccano Pietro Staurino, l’esponente più significativo del cattolicesimo impegnato, Carlo Barberis, Giuseppe Manfredi, Luigi Manfredi, Luigi Lombardi, Giuseppe Bonelli, Giuseppe Colombo e Luigi Venanzio Vaggi. La figura locale più rilevante, però, è il parroco Giuseppe Pagella con certezze spirituali che precedono ogni ideologia, anche nella veste di censore morale.
Nel dopoguerra sportivo, l’ardente rinascita dell’attività calcistica ha rapidamente soppiantato tutte le altre discipline sportive all’interno dell’Unione Sportiva Valenzana. Il 7 settembre 1919, con grande entusiasmo, è inaugurato il rinnovato campo sportivo comunale, denominato anche campo sportivo di Porta Alessandria, poi campo Cappelletta, dotato di moderne tribune. La squadra è inserita nel campionato di Divisione Nazionale, girone B piemontese, insieme a squadre di prestigio come Alessandria, Casale e Novara. Questi sono gli anni in cui la Valenzana combatte storiche battaglie contro i “grigi” e le altre formazioni del celebre “quadrilatero” piemontese. Tra i giocatori rossoblù si annoverano atleti di fama nazionale, come il giovane portiere valenzano Clemente Morando, un calzaturiere nato nel 1899, che diventerà il portiere della nazionale italiana in tre prestigiosi incontri internazionali terminati alla pari: contro la Svizzera (6-11-1921), l’Austria (15-1-1922) e la Cecoslovacchia (26-2-1922).
Nel 1921 è eletto presidente dell’Unione Sportiva il rag. Giuseppe Visconti, vicepresidenti sono Luigi Bonzano e Florindo Panzarasa, segretario è riconfermato il rag. Marchese, cassiere Attilio Croce ed economo Tommaso Pasquarelli.
Nell’estate del 1922, la scena calcistica italiana subisce però una profonda ristrutturazione dei suoi campionati, con la conseguente esclusione di numerose società dal massimo torneo nazionale a causa della riduzione del numero di squadre partecipanti. Purtroppo, anche l’Unione Sportiva Valenzana, dopo aver militato per diversi anni nella massima serie italiana, deve rassegnarsi a retrocedere nel campionato di livello inferiore. Nel torneo di Prima Divisione 1927-28, la squadra, allenata dall’esperto tecnico Fresia e presieduta dal geometra Soro, schiera questa formazione: Cagnina, Poma, Bonzano III, Saracco, Ferrari III, Accatino, Zacchero, Belloni, Sereno, Grassi, Farina.
Questa compagine si comporterà in modo onorevole in questi tornei di secondo piano, riuscendo a mantenere un discreto livello di competitività. Tuttavia, a partire dal 1930, la squadra, ancora presieduta da Soro, inizierà ad attraversare un periodo di declino sempre più preoccupante. Immersa in gravi problemi di natura principalmente economica, sarà costretta a partecipare solamente a campionati di livello provinciale, perdendo progressivamente tutto il prestigio e la forza agonistica che l’avevano contraddistinta in passato. Questo precipitoso declino susciterà grande sconcerto e delusione tra i fedeli tifosi, che dovranno assistere impotenti alla perdita di tutto ciò che la loro amata squadra aveva conquistato con anni di sacrifici e impegno.
Terminato il conflitto, la produzione orafa ha conosciuto un super boom, ma lo sviluppo dell’industria locale della calzatura non è stato da meno. Dopo la grande produzione bellica che ha permesso a questa industria di prosperare anche in tempi di guerra, nel 1921, a conferma della buona salute del comparto, i tomaifici e i calzaturifici iscritti al registro aziende sono ben 19 e gli occupati nel settore circa 700. Nelle tomaie giunte spiccano le aziende Baggio Gennaro, Ghiglione Paolo, Ballario e Mantelli, Carnevale e Guidetti, Felice Chiesa & C., Fr. Cravera e la Società Anonima Cooperativa. Due anni dopo, nel 1923, il numero dei tomaifici e dei calzaturifici è cresciuto considerevolmente, fino a quasi una trentina di aziende in concorrenza tra di loro.
Nel 1923 a Valenza ci sono 64 aziende orafe con 376 operai, 40 tomaifici-calzaturifici con 863 operai, 1 filanda (F.lli Ceriana) con 147 operai, 2 fornaci, 4 sarti, 5 panetterie, 3 alberghi e 2 banche locali.
Nel 1924, il Teatro Sociale è sottoposto a una ristrutturazione curata dall’ingegner Vandone, su incarico della società dei palchettisti guidata dal geometra Baldi. Il 21 aprile 1924, nel parco della Rimembranza, viene inaugurato – in occasione dell’anniversario dei Natali di Roma – un maestoso monumento ai caduti della Grande Guerra, eretto a ricordo dei 153 concittadini che hanno perso la vita nel conflitto. L’inaugurazione di questo solenne memoriale rappresenta un momento di profonda commozione e riflessione per l’intera comunità, che intende onorare il sacrificio dei propri figli e preservarne la memoria per le generazioni future.
Sempre nel 1924, nasce il primo Circuito Città di Alessandria, che si snoda tra le colline della zona (comprende il giro dei 32, Alessandria, Valenza, San Salvatore, Alessandria) e che suscita grande stupore ed entusiasmo tra i cittadini di Valenza. La corsa riscuote un successo di pubblico straordinario, con folle inaspettate di spettatori accalcati ai bordi della strada che rendono difficile il passaggio delle automobili in gara. Questi appassionati vivranno con grande intensità non solo lo svolgimento della competizione, ma anche tutta la fase di preparazione. Il Circuito diventerà così un appuntamento imperdibile che durerà fino al 1930. Un momento di grande coesione e condivisione della comunità locale, che si riconoscerà pienamente in questa manifestazione sportiva dalle tinte quasi dannunziane e futuriste.
Durante il baldanzoso regime, il mese di luglio e la festa di San Giacomo continuano a essere un periodo di abbondanti giochi, divertimenti, esibizioni bandistiche, transazioni ed esposizioni agricole, un grande parco di divertimento estivo che offre gioia e spensieratezza ai valenzani in forte odore generale di fascismo.
Nel censimento industriale del 1925 a Valenza risultano 14 tomaifici con 202 addetti e 9 calzaturifici con 516 addetti. Le fabbriche orafe censite ufficialmente sono 80 con 466 dipendenti. Ma nello stesso anno certe fonti riportano 1.376 lavoratori orafi – si presume in fabbriche, laboratori e a domicilio – e ben 195 luoghi di lavoro orafo. Tra il 1920 e il 1930, le ditte orafe aumenteranno in modo repentino fino ad arrivare a quasi 300 unità e a circa 2.000 occupati alla fine degli anni Venti, prima della crisi degli anni Trenta.. Presidente della società tranviaria valenzana elettrica valenza-stazione è l’ing. O. Farina. Muore monsignor Giuseppe Pagella e gli succede don Giovanni Grassi.
In questi anni, la città è amministrata dal ragioniere Mario Soave, il quale ricopre il duplice ruolo di sindaco e di duce locale. Figura di particolare rilevanza nella politica cittadina è anche il segretario politico Aldo Marchese, esponente di spicco della sezione fascista locale, noto per la sua onnipresenza.
Nelle elezioni politiche del 1924, preparate e vinte dal listone fascista che ottiene 374 rappresentanti alla Camera, anche a Valenza si verificano brogli, intimidazioni e interferenze, ma prevale lo stesso la lista massimalista, che ottiene 1.736 voti: 70 i voti comunisti e solo 106 voti fascisti che fanno venire il mal di testa ai camerati locali. Tra gli eletti nella Lista Nazionale c’è il valenzano Livio Pivano, poi dissidente. Il vibrante atto d’accusa contro i metodi violenti tenuti durante queste elezioni costa la vita a Giacomo Matteotti.
Nel 1925-1926, con le leggi fascistissime, Mussolini inizia a costruire la dittatura: sono aboliti tutti i partiti all’infuori di quello fascista, sciolti i sindacati socialisti e cattolici e soppressa la libertà di stampa. A Valenza molti coraggiosi politici locali sono stanchi e se ne vanno, svaniscono come vecchi soldati, escono dalla scena in uno dei momenti più agitati. Tanti s’imbarcano giulivamente sul nuovo treno. I socialisti e i comunisti vedono travolta la loro ideologia e non sono in grado di superare le rigidità e le asprezze dei tempi. La dittatura fascista, raccoglie le adesioni di vecchi politici locali che sembrano fuorusciti da un campo di rieducazione.
Quella valenzana è una destra conservatrice, sociale e nazionale, con un autorevole legame con la tradizione. I personaggi principali del partito fascista valenzano sono il podestà Soave, il segretario federale provinciale Aldo Marchese, che con il Duce non condivide la romanità pomposa, casomai la romagnolità sanguigna, il presidente della Deputazione provinciale Luigi Vaccari fautore dell’ordine, lo scoppiettante segretario locale Ferrario, il vice podestà Ratti, il redattore capo de La Mazza, organo ufficiale di Alessandria, Mario Alberto Tuninetti, Ferraris, Biglieri e altri. Dirige l’ospedale il cav. Scapitta e il dott. Brollo ne è il primario, segretario comunale è il cav. Repossi, Merlani è il presidente dell’Opera Pia Pellizzari. Tutti obbedienti al volere del capo.
I giovani fascisti valenzani sono inquadrati in apposite organizzazioni con struggenti messe in scena pubbliche e con performance plateali e retoriche, carenti di finezza e signorilità: inizialmente nell’A.G.F. (Avanguardia Giovanile Fascista), dall’aprile 1926 nell’O.N.B. (Opera Nazionale Balilla). Nelle organizzazioni giovanili ci sono diversi gradi in base all’età: il primo è il Figlio della Lupa, poi ci sono il Balilla, l’Avanguardista e il Giovane fascista. Nel campo femminile la divisione è tra Piccole italiane e Giovani italiane.
Dopo il consolidamento del regime fascista, ottenuto soprattutto con le leggi eccezionali del 1926, viene modificata anche la legge elettorale politica e gli elettori hanno solo la facoltà di approvare o respingere in blocco una lista unica nazionale proposta dal Gran Consiglio del Fascismo.
Il plebiscito del 24 marzo 1929 è esagitato, preceduto come è da una imponente campagna propagandistica a senso unico fatta di discorsi vibranti, alla quale cooperano non solo le organizzazioni del Partito Nazionale Fascista di Valenza e i funzionari locali dello Stato, che, accodati dietro come i topi col pifferaio magico, danno il loro meglio, ma anche una buona parte della Chiesa locale fa finta di non vedere dopo che l’11 febbraio dello stesso anno si sono conclusi felicemente i Patti Lateranensi.
Il successo della votazione è scontato, ma per renderlo più plebiscitario si ricorre alle intimidazioni e al trucco. All’elettore sono consegnate due schede, recanti il simbolo del fascio: in una è stampata la risposta “sì” e nell’altra la risposta “no” alla domanda “Approvate voi la lista dei deputati designati dal Gran Consiglio Nazionale del Fascismo?”. A Valenza gli oppositori sostengono che gli scrutatori, tutti fascisti o filofascisti, nel predisporre le schede abbiano apposto il timbro in modo differente: le schede col sì sono state timbrate esattamente in corrispondenza del cerchio a stampa, quelle recanti il no con il timbro lievemente decentrato, in modo che, quando viene riconsegnata la scheda votata, i membri del seggio possono scoprire come ha votato l’elettore osservando il timbro. Vera o falsa la narrazione, si dice che all’uscita, poi, alcune camicie nere abbiano preteso con arroganza di vedere la scheda rimasta in mano all’elettore valenzano, sintomo di un patologico delirio di superiorità, senza vergogna, senza pudore e senza dignità.
Il 16 gennaio 1928 il Prefetto di Alessandria scioglie le federazioni del PSI e del PC. Luigi Vaccari diventa podestà di Alessandria e il sindaco Mario Soave è nominato podestà di Valenza.
Nel 1929, sotto la spinta del regime fascista, sono fatte moltissime aggregazioni comunali e il Comune di Villabella passa sotto l’amministrazione di Valenza diventando una sua frazione. Gli ultimi atti saranno trasferiti al Comune di Valenza nel 1938.
In questi anni Valenza ha circa 11mila abitanti e il reddito procapite e il tenore di vita non sono male per i tempi. Girano poche auto e qualche moto, la tecnologia non invade ancora la vita delle persone; il mezzo di trasporto più usato, anche da alcuni viaggiatori orafi, è la bicicletta. Tramonta il mondo tradizionale, le cose non vanno bene ma neanche tanto male: le donne scoprono il rossetto, lo smalto, le calze di seta, la gonna al ginocchio e si pettinano alla Greta Garbo. Non hanno pari opportunità rispetto agli uomini, ma non sembra dispiacergli tanto. Come in tutto il Paese, anche qui, funziona una propaganda volta a esaltare il Duce, scambiando lo Stato con una retorica ridicola, il pensiero unico pervade il sistema di comunicazione ma, in alcuni segmenti della società, non tutti si sentono nella fascisteria associata fino in fondo. I vicini invidiosi cominciano a insinuare della boria e dell’albagia dei parvenu valenzani: sembra un segno del destino, durerà sino ai nostri giorni.
I lavoratori italiani sono divisi in questo modo: circa 1/3 nell’agricoltura, 1/3 nell’industria e 1/3 nel terziario. A Valenza abbiamo 1/4 nell’agricoltura, 2/4 nell’industria e 1/4 nel terziario. In questi tempi esiste già un’associazione orafa, una piccola rappresentanza che si riunisce in una stanza di via Roma.
Dunque nel periodo fascista l’industria della calzatura, che divide quasi tutta l’economia e l’occupazione locale con l’oreficeria, non subisce alcun rallentamento; al contrario, conosce un nuovo periodo di fortuna grazie alla fornitura dell’esercito.
Durante il regime molti esponenti della sinistra “clandestina” valenzana nutrono ancora il sogno fascinoso dell’uguaglianza affinché si abbia come conseguenza la libertà; gradualmente però per alcuni la loro anima socialista è erosa e sostituita da una più adatta ai tempi di lotta: quella comunista. Se non sono in grado di compiere azioni eclatanti, sono invece molti attivi nel sostegno della stampa antagonista al regime; spesso alla stazione ferroviaria locale si verificano scontri e scazzottate per l’illegale distruzione di giornali quali: Ordine Nuovo, Giustizia, Avanti. I loro locali pubblici di riferimento sono il Garibaldi e La Botte (la borghesia va al Caffè Teatro).
Nei bar e nelle baracche lungo le rive del fiume Po, si riuniscono spesso gli esponenti di questo variegato movimento, accomunati dalla loro opposizione al fascismo e dal desiderio di costruire una società più giusta e solidale. Tra loro, troviamo figure di diversa estrazione sociale e culturale: accanto agli idealisti, alcuni dei quali nutrono anche qualche velleità utopistica, vi sono combattenti animati da una forte spinta rivoluzionaria. Ciò che li accomuna è il rigore morale con cui affrontano l’impegno politico, mossi dalla speranza di poter contribuire a un cambiamento profondo della realtà in cui vivono. Questo gruppo antifascista è particolarmente attivo in una città dove, a differenza di gran parte del Paese, il benessere è relativamente diffuso grazie allo sviluppo industriale di alcuni settori strategici, come l’oreficeria e la calzaturiera. Ne fanno parte figure come Aviotti, Bellone, Casolati, Corona, Dabene, Ferraris, Genzone, Guidi, Rigoni, Sforzini, Vaccario, Vaiarelli e Visconti, ciascuno con il proprio bagaglio di esperienze e di convinzioni. Tra questi, spicca la figura di Carlo Visconti, il più anziano del gruppo, destinato a mancare alla vigilia della guerra d’Etiopia. Egli, una specie di santone laico, è il principale animatore della compagine, grazie alla sua acutezza di vedute e alla sua ampia cognizione di politica generale, che condivide costantemente con i suoi compagni. Visconti è un illuminista convinto, con spirito creativo, che crede nel progresso e nell’umanità. Agli attivisti comunisti un ruolo fondamentale è giocato dalla scelta individuale che assorbe la dimensione esistenziale assieme a quella politica. Sono vasi di coccio in mezzo a vasi ferro. Prova ne sia che, anche a Valenza, non mancano i “fasciocomunisti”, alcuni eretici vacillanti tra le certezze del tempo che vivono in una bolla di falsità, accontentati un po’ dalla destra e un po’ dalla sinistra.
I valenzani sono stati senza dubbio influenzati e coinvolti nel fenomeno del fascismo, ma alla natura e all’intensità di tale adesione si può dare interpretazioni differenti: condivisione o sottomissione? Da un lato, si può ritenere che il fascismo fosse una forma di adesione più superficiale e formale, dettata da convenienze, timori o finzioni piuttosto che da una vera e propria convinzione ideologica. In questa prospettiva, solo una minoranza dei valenzani aderì realmente e profondamente al progetto fascista, mentre la maggioranza lo fece in modo approssimativo, teatrale e transitorio. Da un’altra parte, si può sostenere che il fascismo radicò profondamente anche tra i valenzani, influenzandone in modo significativo il pensiero politico e sociale. Secondo questa visione, molti di loro furono più mussoliniani che fascisti, abbracciando con convinzione l’ideologia e il culto della personalità del duce prima ancora che l’intero sistema fascista. Per questo, occorrerebbe comprendere meglio la complessità delle dinamiche sociali e politiche locali dell’epoca, liberandoci da giudizi moralistici e da facili etichette, con una visione più profonda e articolata del passato, anche per meglio comprendere il successivo percorso di molti audaci e spregiudicati valenzani dalla militanza fascista al comunismo nel dopoguerra. Perché, purtroppo, in politica da sempre trionfa questa incoerenza: sono cherubini quelli che stanno con noi e criminali quelli che stanno con gli altri.