Alain Delon, l’ultimo dei ribelli
Le interpretazioni di Alain Delon risultano per la maggior parte memorabili, impossibile enumerarle tutte. Fra le tante, un posto speciale lo conquistano di diritto quelle in coppia con Jean-Paul Belmondo, altra icona dell’immaginario cinematografico del Novecento. A livello divistico Delon si è fatto portavoce di un fascino glaciale, tormentato, da ribelle, espressione di una mascolinità moderna, femminea, a tratti, complicata. Poi c’è la parabola umana, che spesso si intreccia e confonde con quella artistica: di quella abbiamo sentito parlare, anche con accenti dolorosi, se non addirittura drammatici. Noi spettatori, in fondo, conosciamo il bello e il meglio delle esistenze dei divi: il resto lo lasciamo alla vita stessa, che anticipa l’arte, la significa e la influenza.
Una vita avventurosa, tra ribellione e fragilità
Alain Delon nasce l’8 novembre 1935 nella cittadina di Sceaux, regione dell’Île-de-France. Figlio di Fabien Delon, il direttore di un piccolo cinema di quartiere, e di Édith, commessa in una farmacia, a quattro anni assiste al divorzio dei genitori e va a vivere sino agli otto con una famiglia affidataria. Qui viene profondamente turbato dall’assistere alla fucilazione di un collaborazionista: il padre adottivo, infatti, lavora come guardia carceraria. Sino ai quattordici anni il giovane Alain, già sofferente e ribelle, dopo essersi allontanato anche dalla famiglia adottiva, cresce in un collegio di suore. Poi – tornato dalla madre, che nel frattempo si è risposata con un maestro salumaio – viene assunto come ragazzo di bottega, ma improvvisamente – a diciassette anni – si arruola in Marina e va a combattere per tre anni in Indocina. In seguito alla sua espulsione per indisciplina, nel 1956 Delon ritorna in patria, dove passa da un lavoro all’altro (facchino, commesso, cameriere), venendo anche a contatto con i quartieri più malfamati di Parigi, prima di essere invitato al festival di Cannes dall’attore Jean-Claude Brialy e di iniziare, di lì a breve, la sua lunga parabola nel cinema francese.
Amori, figli e tormenti
La vita privata di Delon si dipana sotto la bandiera delle molteplici relazioni, spesso fallimentari, dei rovelli e degli abbandoni. Sul set del suo primo film, “L’amante pura” di Pierre Gaspard-Huit, nel 1958 conosce l’attrice austriaca Romy Schneider, con cui intreccia una passionale ma anche tormentata relazione; in contemporanea, nel 1962 ha una breve liaison con Nico, la cantante dei Velvet Underground, dalla quale ha un figlio – Christian – che non riconosce e che viene, in seguito, adottato dalla nonna paterna. I flirt, i rapporti intensi ma passeggeri del divo francese popolano le copertine delle riviste internazionali per tutti gli anni Sessanta e oltre: all’inizio del decennio Delon ha una storia con la cantante Dalida, e – nel 1968 – con la collega Mireille Darc. Tra le due, trova il tempo di sposare l’attrice Nathalie Delon, nel medesimo anno – il 1964 – in cui viene alla luce il loro figlio Anthony. Gli anni Ottanta sono quelli delle relazioni con le attrici Anne Parillaud e Catherine Pironi; mentre alle soglie dei Novanta (nel 1987, per l’esattezza) Delon incontra la modella olandese Rosalie van Breemen, con la quale resta sino al 2001 e che gli dà due figli, Anouchka (1990) e Alain Fabien (1994). L’ultima compagna del divo si chiama Hiromi ed è di origine giapponese: il suo nome viene rivelato nel 2021 dallo stesso Delon, che appena due anni prima è stato colpito da un ictus. L’ultima fase della vita dell’attore trascorre in solitudine, tra liti con i figli, battaglie legali, problemi di salute, una perenne depressione e la conseguente perdita della voglia di guardare con speranza al futuro, tanto da ipotizzare un possibile suicidio assistito in Svizzera: «La vita non mi dà più molto. Ho conosciuto tutto, ho visto tutto. Ma soprattutto, odio questa epoca, la rigetto. Tutto è falso, tutto è distorto, non c’è rispetto, niente più parole d’onore. Conta solo il denaro. So che lascerò questo mondo senza rimpianti».
Un’icona del cinema internazionale
L’esordio sul grande schermo di Alain Delon avviene nel 1957 con il film “Godot” di Yves Allégret e – l’anno seguente – con il primo ruolo da protagonista nel già citato “L’amante pura” di Pierre Gaspard-Huit. Il successo arriva quasi subito, nel 1960 di “Delitto in pieno sole” di René Clément, ma è l’ingresso di Delon tra i volti e i personaggi maschili del cinema italiano che lo consacra in maniera stabile a star internazionale: il 1960 è anche l’anno di “Rocco e i suoi fratelli” di Luchino Visconti. Nel 1962, invece, Alain lavora con il Michelangelo Antonioni di “L’eclisse”, in coppia con Monica Vitti, e l’anno successivo con il Visconti de “Il Gattopardo”, capolavoro del maestro lombardo, dal ciclopico romanzo di Tomasi di Lampedusa. Collaborazioni hollywoodiane a parte, il finire degli anni Sessanta vede Delon imporsi in patria nel genere polar, intreccio fra poliziesco e noir che in quel periodo si concretizza in titoli come “Frank Costello faccia d’Angelo” (1967) di Jean-Pierre Melville, “Il clan dei siciliani” di Henry Verneuil (1969) e “Borsalino” di Jacques Deray (con cui, nel 1969, gira anche “La piscina”, insieme a Romy Schneider), sorta di ‘buddy movie’ in coppia con l’altrettanto seducente e iconico Jean-Paul Belmondo. Killer, gangster, scrittore in crisi, ribelle e reietto dalla società: Delon incarna nel cinema mondiale un nuovo tipo di figura maschile, freddamente spregiudicata, espressione dei tempi, cupa, ambigua, sovente in piena crisi d’identità. Ne è un esempio conclamato il professore di “La prima notte di quiete” di Valerio Zurlini (1972), film con il quale Delon torna al cinema italiano, interpretando – qualche anno più tardi, nel 1975 – Zorro nell’omonimo film di Duccio Tessari. Gli anni Ottanta sono quelli dell’ampliamento delle attività nel mondo del cinema dell’attore, che oltre alla recitazione (vedi, ad esempio, “Un amore di Swan” per la regia di Volker Schlöndorff, trasposizione proustiana del 1984) esplora con la sua Adel Production anche il versante della produzione, nonché della regia. “Per la pelle di un poliziotto” (1981) e “Braccato” (1983), sono le uniche opere del Delon regista, due thriller duri e tesi, in cui entra con grande efficacia nei panni rispettivamente di un ex poliziotto che lavora come detective privato e di un delinquente appena uscito di galera. Nel 1985 Alain viene ricompensato con il premio César per il migliore attore nel film “Notre histoire” di Bertrand Blier, ma la sua carriera è già ricca di riconoscimenti, dalla candidatura al Golden Globe per “Il Gattopardo” (1963) al David di Donatello (1972). Nel 1995 l’attore riceve anche l’Orso d’oro a Berlino: il 2019 è la volta della Palma d’oro a Cannes. Alle soglie del 2000 Delon ha già diradato da alcuni anni la sua presenza sul set: il mondo del cinema è ai suoi occhi irriconoscibile, e gli fornisce sempre meno stimoli. “Asterix alle Olimpiadi” di Frédéric Forestier e Thomas Langmann (2008), ennesima trasposizione dei fumetti originari di René Goscinny e Albert Uderzo, rappresenta l’ultima sua comparsa sul grande schermo, nel ruolo di Giulio Cesare. Nel 2017 Delon annuncia ufficialmente il suo ritiro dalle scene.
Gli animali nel cuore
A dispetto dell’accusa di avere un carattere difficile, scontroso, e delle frequenti recriminazioni per le sue idee e prese di posizione (anche politiche), Alain Delon ha sempre coltivato un profondo amore verso gli animali, in particolare i suoi cani: in 35 riposano nel terreno della sua residenza a Douchy. «Voglio che mi seppelliscano con i miei cani, ha di frequente ribadito il divo. Non mi interessa nient’altro, voglio solo stare con loro. Sono stati gli unici ad amarmi incondizionatamente, sempre lì per me, senza chiedere nulla in cambio». Particolarmente toccante la storia d’amore tra Delon e Loubo, un pastore belga malinois adottato dall’attore nel 2014. Paventando la possibilità di andarsene e di lasciare il suo cane completamente solo, Alain aveva accarezzato l’idea di una morte comune, per evitargli la sofferenza della sua dipartita, come raccontò a “Paris Match” nel 2018: «È il cane della parte finale della mia vita, non lo lascerò da solo. Se dovesse morire prima di me, cosa che spero, non ne prenderò più altri. Se morirò io prima di lui, chiederò al veterinario di lasciarci andare insieme. Gli farà una iniezione letale in modo che se ne vada tra le mie braccia. Preferisco così piuttosto che sapere che morirà sulla mia tomba con tanta sofferenza». Non a caso, la notizia della scomparsa del divo è stata comunicata alla stampa dai tre figli, con l’aggiunta di Loubo. Speriamo che Alain – ovunque si trovi – ne sia stato felice.