I migliori film del 2022
“The Fabelmans”
Nella mente di Steven Spielberg questo commosso e intenso omaggio alle sue radici familiari e artistiche, alla settima arte come luogo di fantasmagorie e della sapiente commistione tra la dimensione del fantastico e quella del reale inizia a prendere forma già nel lontano 1999: per sua stessa ammissione, la crisi determinata dalla pandemia ha contribuito ad accelerare il processo di realizzazione del film, che si avvale delle ottime interpretazioni di Michelle Williams nei panni della creativa ex pianista Mitzi Fabelman, di Paul Dano nel ruolo di suo marito Burt, ingegnere in carriera, e di Gabriel LaBelle in quello del loro figlio Sammy, completamente affascinato e avvinto dal sogno del cinematografo sin da quando, a soli sei anni, i genitori lo portano a vedere “Il più grande spettacolo del mondo” di Cecil B. DeMille.
Da questo evento fondativo si dipana il racconto dell’adolescenza e della prima giovinezza dell’alter-ego spielberghiano, costellato di evocativi tributi al cinema di genere – dal western al war-movie – e dalla sincera evocazione dei fantasmi domestici (le sorelle, l’eccentrico zio Boris interpretato da un grandioso Judd Hirsch, la separazione dei genitori), con l’occhio della cinepresa che si rivela al contempo esploratore del reale e creatore di mondi nuovi. Folgorante il cameo di un grande regista della contemporaneità, David Lynch, a evocare la personalità di un asso del cinema di tutti i tempi: John Ford.
“Licorice Pizza”
Candidato a tre premi Oscar (miglior film, regista e sceneggiatura originale), “Licorice Pizza” è l’ultimo gioiello cinematografico di uno dei cineasti più talentuosi del cosiddetto nuovo cinema americano, Paul Thomas Anderson, che con questo film mette in scena il suo personale ‘come eravamo’ immerso nella fluidità magica e ipnotica della San Fernando Valley degli anni 70’, suo luogo di nascita. Gary (Cooper Hoffman) e Alana (Alana Haim, attrice dalla bellezza e dal taglio recitativo del tutto inusuali), i due ragazzi protagonisti, sono in forme diverse entrambi degli spiriti liberi, desiderosi di correre incontro a un futuro che prevedono eccitante, ma anche del tutto ignoto.
Lui, ex bambino prodigio ormai alla fine della carriera, alle soglie dell’adolescenza, e lei, ragazza venticinquenne di dieci anni più grande, figlia insoddisfatta di un agente immobiliare ebreo, sono come due satelliti, due mondi che continuano ad orbitare, nel corso dei decenni, l’uno intorno all’altro, entro una perenne altalena di avvicinamenti e separazioni. Intorno a loro, l’eccentricità della comunità hollywoodiana e losangelina dell’epoca e la società americana in trasformazione (vedi, ad esempio, il riferimento alla crisi energetica del 1973). Il tutto immerso nella calda luce californiana, scandito dalle musiche di quel periodo, reso più vivido dai frequenti piani sequenza che rendono conto soprattutto del movimento di Alana, del suo rincorrere emancipazione e diritto alla felicità. Paul Thomas Anderson ama il cinema e lo dimostra, blandendo le immagini, rivestendole di una soffusa nostalgia per un’età della vita che l’occhio della macchina da presa sa rievocare con sconvolgente potenza narrativa.
“Crimes of the Future”
Otto anni dopo il controverso e forse non del tutto riuscito “Maps to the Stars”, che esplorava i paradossi e l’apparato in decomposizione dello star system hollywoodiano, David Cronenberg – autore, tra gli altri, di “Crash” ed “EXistenZ”, pioniere del cosiddetto ‘body horror’ – torna al suo tema prediletto, il corpo, in tutta la sua carnale evidenza: un corpo svuotato e dissezionato dall’interno, con fredda perizia da anatomopatologo. In un non ben precisato futuro distopico, cupo – anche a livello di scelte figurative e d’illuminazione – e abitato da una misteriosa setta di mangiatori di plastica si dipana la vicenda di Saul Tenser (Viggo Mortensen) e della sua compagna Caprice (Léa Seydoux), entrambi esponenti di una nuova evoluzione della body art.
La nuova frontiera del lavoro creativo e artistico sull’anatomia umana è, infatti, l’ingresso nel corpo stesso, il trionfo di una chirurgia (definita nel film «il nuovo sesso») che – a causa dell’innalzamento della soglia del dolore e di un’evoluzione che favorisce lo sviluppo di nuovi organi – diviene strumento di performance visiva, veicolo per un’inedita esplorazione della fisicità e persino per un erotismo e un godimento sensuale spinti ai loro limiti estremi. Un film liminale, complesso ed enigmatico nella sua struttura – in perfetto stile Cronenberg – e, nello stesso tempo, essenziale e risolto nella prospettiva ‘ecologica’ a cui ci pone di fronte.
“Belfast”
È un viaggio nostalgico, potente, divertito e commosso nella terra perduta dell’infanzia, seppure funestata dalla guerra civile, quello in cui il regista e attore inglese Kenneth Branagh accompagna lo spettatore, risalendo ai suoi nove anni e all’estate del 1969, quando a Belfast – dove viveva – tutto cambiò. Vincitore dell’Oscar per la migliore sceneggiatura originale (primo nella storia dell’Academy a venire nominato in sette differenti categorie), il film si apre con una panoramica a colori della Belfast attuale, che poi trapassa nel bianco e nero nitido ed elegiaco della lontananza, nel ricordo della città com’era in quell’agosto 1969 che vide allargarsi a macchia d’olio ‘The Troubles’, il conflitto tra protestanti e cattolici nell’Irlanda del Nord: la cosiddetta ‘guerra a bassa intensità’ che ha provocato – tra la fine degli anni Sessanta e la fine dei Novanta – più di 3500 vittime. Eppure, in “Belfast” la pignoleria narrativa di Branagh si stempera nella malinconia agrodolce e nel rimpianto verso un tempo d’infanzia che è stato, a suo modo e nelle sue mille incertezze, fondativo di una fase della crescita come di un talento artistico ancora embrionale, ma sicuro.
“Ennio”
“Ennio: The Maestro” di Giuseppe Tornatore è il film documentario che il regista siciliano, forte di una collaborazione durata trent’anni, ha dedicato al geniale compositore e direttore d’orchestra Ennio Morricone, autore di oltre 500 musiche da film e vincitore di due premi Oscar (il primo alla carriera, nel 2007, il secondo per la colonna sonora di “The Hateful Eight” di Quentin Tarantino, nel 2016). Non deve spaventare o essere un deterrente per lo spettatore la durata del film, 150 minuti di grande poesia e bellezza estetica che scorrono via veloci, in un’immersione totale e profonda negli incomparabili universi musicali e cinematografici che Morricone – scomparso nel 2020 – ha saputo evocare. Non si tratta soltanto di una esaustiva, dettagliata e intensa restituzione della biografia personale e soprattutto artistica del Maestro, i cui tasselli sono rappresentati dalle testimonianze dei protagonisti del cinema e della musica contemporanei oltre che da estratti dei film in cui ha lavorato e da immagini d’archivio: “Ennio: The Maestro” è il racconto dell’essenza di un artista eccezionale, evocata attraverso le immagini da un maestro della settima arte.
“Spencer”
Nel suo saper raccontare le involuzioni e i cortocircuiti della Storia, anche attraverso snodi significativi di biografie illustri (come in “Neruda” e “Jackie”, ad esempio, dove le due celebri figure del poeta cileno e della first lady americana vengono colte nel loro incarnare, sia a livello fisico che simbolico, il momento successivo a una drammatica cesura temporale), il regista cileno Pablo Larraín mette in scacco, a volte, la verosimiglianza, passando senza soluzione di continuità dal realismo all’affabulazione e calando i suoi personaggi all’interno di autentiche simulazioni narrative. È ciò che accade anche in “Spencer”, ‘a fable from a true tragedy’, in cui la dimensione favolistica – nella sua dichiarata palingenesi finale – prevale sui dolorosi fatti di cronaca domestica che videro coinvolta, poco prima della fine annunciata del matrimonio tra il principe Charles e lady Diana Spencer, la Royal Family britannica. In questo modo l’autenticità degli accadimenti e delle figure reali perde di significato e acquista senso solo la fabula nera, tragicamente ispirata a una parte dell’esistenza della principessa di Galles, che Larraín ambienta nella dimora di campagna dei Windsor, a Sandringham, tra la vigilia di Natale e il giorno di Santo Stefano del 1991.
“Esterno notte”
Nella miniserie in sei puntate “Esterno notte” (uscita in sala in due parti nell’estate del 2022), uno dei registi italiani più prestigiosi e di lungo corso, l’83enne Marco Bellocchio – attento sin dagli esordi di carriera a cogliere attraverso la macchina da presa gli umori ideologici e la variazione della temperie politico-sociale del nostro Paese – ritorna non senza conflittualità e latente dolore a interrogarsi su una delle pagine più buie della storia europea degli ultimi decenni: il rapimento durato 55 giorni e il conseguente omicidio dell’onorevole Aldo Moro, all’epoca (la vicenda si svolge tra il marzo e il maggio del 1978) a capo della Democrazia Cristiana.
Il film si apre dove terminava “Buongiorno, notte”, la pellicola del 1993 dove già Bellocchio poneva in essere la riflessione sul caso Moro, raccontandone dall’interno del luogo di prigionia il lungo calvario: una stanza d’ospedale spoglia e in penombra, sul letto il corpo dello statista, osservato con un paradossale miscuglio di timore e sollievo dai compagni di partito Benigno Zaccagnini, Francesco Cossiga e Giulio Andreotti. L’opera conferma per l’ennesima volta la potente capacità evocativa e di messinscena di Bellocchio, perennemente in bilico tra realismo e iperrealismo visionario, sino alla resa al limite del grottesco di alcuni motivi e situazioni: pregio e, nello stesso tempo, motivo di debolezza di un oggetto filmico peraltro di altissimo livello, che a tratti distorce fatti e personaggi entro la dimensione della maschera e che si avvale della straordinaria interpretazione di Fabrizio Gifuni nelle vesti di Moro.
“Blonde”
Presentato alla Mostra del cinema di Venezia e – subito dopo – sulla piattaforma di Netflix, il film dell’australiano Andrew Dominik è una restituzione per lo più fedele dell’omonimo romanzo di Joyce Carol Oates ripubblicato dalla Nave di Teseo nel 2021, che pone l’accento sul lato meno conosciuto e luminoso del Mito Monroe, ovvero la vita personale tormentata, gli esordi nel cinema come puro strumento di piacere di anziani e lascivi produttori, i fallimentari matrimoni con l’asso del baseball Joe DiMaggio e il drammaturgo Arthur Miller, la relazione clandestina con il presidente americano John Fitzgerald Kennedy. Dominik fa risplendere (seppure di una luce sinistra e oscura, quella di un mito votato, per retaggio familiare e predisposizione caratteriale, all’autodistruzione) una massa narrativa piuttosto informe ma densa, anche attraverso uno stile che si protende verso il surrealismo: con l’uso dell’alternanza tra il bianco e nero e il colore, accelerazioni, ralenti, dettagli enormemente dilatati (vedi l’esplorazione dell’utero della diva durante gli aborti) o immagini che assurgono a una valenza universale e quasi ‘cosmica’ (la rappresentazione del feto, molto simile a quello astrale del kubrickiano “2001. Odissea nello spazio”, 1969).
“Nope”
Jordan Peele, attore, sceneggiatore e regista afroamericano, autore di film già diventati dei cult (da “Get Out”, 2017, a “Noi”, 2019), firma con “Nope” una pellicola conturbante e più complessa di quanto appaia, oltrepassando i canoni estetici e narrativi dei generi western, sci-fi e horror a cui sembra fare riferimento. Nel geniale prologo molto kubrickiano – con la rievocazione della tragedia occorsa su di un set televisivo, protagonista una scimmia che è la quintessenza dell’eterno altalenare umano tra istinto e ragione – nelle allusioni alle lontane origini del cinematografo mischiate alla questione razziale, nell’allegoria del mostro che piomba dal cielo ma in grado di divorare soltanto chi osa osservarlo, Peele costruisce un lucido e insieme ipnotico ragionamento sul meccanismo oscuro e sfuggente della visione, a tratti generatrice così come domatrice di incubi. Un film inconsueto e originale su Hollywood, sulla passione-ossessione per il cinema, sui miti culturali e sulle paure inconsce della società occidentale.
“Il corsetto dell’imperatrice”
È Elisabetta – duchessa di Baviera e imperatrice d’Austria – la protagonista del film interpretato dall’attrice lussemburghese Vichy Krieps, decisamente in ascesa dopo un esordio cinematografica fulminante in quel 2017 de “Il filo nascosto” di Paul Thomas Anderson (qui anche produttrice esecutiva e vincitrice del premio per la miglior interpretazione nella sezione ‘Un certain regard’ di Cannes). Sissi – che nella pellicola della regista austriaca Marie Kreutzer appare radicalmente antitetica rispetto al personaggio edulcorato protagonista della trilogia di Heimatfilm interpretati da Romy Schneider tra la metà e la fine degli anni 50’ – è una donna ormai matura in quel dicembre 1877 in cui approda alla fatidica soglia dei quarant’anni, un’età giudicata – come le ricorda il suo medico personale – il limite massimo dell’aspettativa di vita per una donna del popolo. La riflessione sull’esistenza e sull’amore che Elisabetta compie in voce fuori campo ne delinea con grande intensità l’intima frustrazione, l’amarezza che a tratti marca il suo viso, lo sguardo sempre più assorto in una lontananza remota, in un desiderio d’evasione e libertà che la società circostante, lo stesso marito Francesco Giuseppe e il figlio Rodolfo scambiano per eccentricità e insana nevrosi.