La peste manzoniana a Valenza
Un nuovo viaggio nella storia della città del gioiello
VALENZA – A Valenza il XVII secolo, un periodo intriso di doppiezza e di ambiguità, è ricco di eventi rilevanti, in particolare quelli a carattere militare, a causa della posizione geografica della città. La statura militare di Valenza è in continuo aumento: è un rilevante e guarnito avamposto della Lombardia spagnola verso il Piemonte sabaudo e il Monferrato dei Gonzaga. Il duomo, i monasteri, i conventi, le confraternite e le chiese dimostrano una certa densità di popolazione, quasi 5.000 persone all’inizio del Seicento. Saranno le troppe guerre, le miserie e le pestilenze a provocare altri rilevanti vuoti demografici in questo secolo. Il borgo di Monte è formato da più di un centinaio di persone.
Il nuovo duomo, completamente restaurato, è aperto al pubblico nel 1622, anche se non ancora ultimato, la prima pietra è stata posta nel 1619 ad opera dell’architetto Paolo Falcone. L’attività economica generale è abbastanza sviluppata e una certa prosperità pare sia a portata di mano; ci sono diverse filande e un’industria di fustagni (tessuti) che occupano grandi quantità di donne, è cresciuta la fabbricazione di vasi atti a contenere il vino, sempre più dinamico è il commercio attraverso i ponti di barche sul Po. Gli inestirpabili conflitti bellici e la losca autorità locale sono quasi accettati dai valenzani come inevitabili: una visione quasi sciovinista.
Durante la seconda guerra di successione per il Monferrato, iniziata nel 1627, nel settembre del 1629 l’esercito alemanno, proveniente dalla Valtellina, si congiunge a quello spagnolo a Milano. Questa armata composta da 16.000 fanti e 4.000 cavalieri – un complicato intreccio di forze, un amalgama di spagnoli, tedeschi, napoletani e lombardi – dirigendosi nel Monferrato, sosta nelle nostre parti lasciandovi la peste: un orrore tipico in questi conflitti, ma ora con conseguenze devastanti inimmaginabili.
A Valenza, nell’annus horribilis 1630, ritorna quindi una terribile pestilenza, una delle più famose e micidiali. L’epidemia è nota come “peste manzoniana” – perché sarà ampiamente descritta da Alessandro Manzoni nel romanzo I promessi sposi – e sembra provenire dal nord, dalla Germania, dove si erano raccolte truppe di lanzichenecchi. La pestilenza provocherà circa un milione di morti nell’alta parte dello stivale e, in poco tempo e in modo madornale, minaccerà di cancellare l’intera popolazione valenzana, portandola da 4.500 a 2.000 abitanti in meno di due anni; mentre i fantasmi dei morti continueranno a infestare le notti dei sopravvissuti per molto tempo, come mai era accaduto in precedenza.
Durante la pestilenza gli abbienti sono curati in casa con trattamenti di favore, mentre la maggior parte dei malati viene trasferita nel lazzaretto, un luogo di confinamento e di isolamento. Il primo è stato eretto fuori dalle mura della città, un altro, formato da baracche e da una chiesetta di legno, al di là del Po. Dopo la morte si è seppelliti ammucchiati in fosse comuni. Questa è l’epoca dei monatti e dei roghi di mobili ed effetti personali infetti. All’insegna del si salvi chi può.
Per curare la peste si usano erbe, tabacco, mazzi di fiori ecc. Lungi dal credere che i responsabili della peste siano le pulci e i ratti, la psicosi determina le più invasate bufale e pratiche divinatorie, le si attribuiscono le cause più varie: dalla punizione divina per i tanti peccati commessi, come crede la Chiesa, all’esistenza di persone malvagie, i cosiddetti “untori”, impegnate a diffondere la peste tramite sostanze letali o particolari oli contaminati con i quali ungono i portoni delle case infettando coloro che vi abitano. Non si creda che questo tipo di credulità sia un’attitudine superata ai giorni nostri; il coronavirus, infatti, è da alcuni ritenuto un piano di controllo, un’arma biologica e altre assurdità o sortilegi fatti propri.
Durante la pestilenza manzoniana, vivere e talmente difficile e doloroso che spesso ci si aiuta a scomparire.
Per ridurre il diffondersi della peste, la Chiesa locale (un prevosto, un curato, 9 canonici, 20 cappellani, 3 conventi di frati e 2 di suore) celebra messe e processioni in cui i fedeli angosciati si congiungono per pregare. Non c’è spazio per il dissenso o la diversità di opinioni e gli agnostici sono rari ed emarginati. Il raduno di persone infette, come si può immaginare, ha l’effetto contrario a quello sperato.
La prima vittima valenzana è Laura Bocca, che finisce al creatore per due bubboni all’inguine il 27 giugno 1630.
Nel nome della paura, i protettori degli oppressi e degli sventurati sono sempre pochi. Se la società civile e i renitenti Conservatori Comunali della Sanità fanno poco, sono i religiosi e i cappuccini locali, insediati fuori le mura nel 1585-1589, a un quarto di miglio da Porta Astiliano (poi Porta Alessandria) a prodigarsi incessantemente per alleviare le sofferenze e per l’assistenza nei lazzaretti. Per i loro meriti riceveranno solo un insulso attestato di benemerenza dal comune. Il loro è un altruismo che sgorga dal cuore, dalla pietà, un sentimento così insolito e così nobile da essere degno di elogio. Loro hanno scelto il luogo e il compito più probo per un vero cristiano: occuparsi dai sofferenti.
Tra questi misericordiosi, incredibilmente coraggiosi, ricordiamo l’autorevole padre guardiano Ludovico Bombelli, o Bombello, e padre Francesco Dinina, o Dini, morti di peste; ma ci sono anche fra Onorato o Onorio Cerruti, padre Sante Calcamuggi e il vecchio prevosto del duomo dal 1605 Bartolomeo Bocca, morto anch’egli contagiato il 1° ottobre 1630. Anche le varie confraternite locali – San Bernardino, Santa Maria del Cappuccio, SS. Trinità, San Rocco e San Bartolomeo – si spendono in favore dei più sfortunati. Sono molto attive durante le pestilenze e le guerre e operano nell’aiutare gli ammalati, gli orfani e le vedove, nel dare accoglienza ai pellegrini e nel dare sepoltura ai morti.
L’epidemia viene debellata solo nell’inverno del 1631, con il favore del freddo.
Durante la pestilenza, la Compagnia del Santissimo compra un cavallo per il trasporto dei cadaveri alla sepoltura. Con atto dell’8 agosto 1630, il comune si accorda con il chirurgo Vincenzo Leardi per l’assistenza gratuita ai poveri infetti. Il compenso per il servizio è di 20 scudi mensili, oltre all’abitazione, ed egli ha anche il diritto di esigere un compenso di almeno 20 soldi per ogni salasso dalle prestazioni particolari.
Nei due anni successivi, per buona sorte e con molti richiami ai valori spirituali purificatori, si registra un numero elevato di matrimoni e una crescita delle nascite, ma tornare alla normalità è difficile. Ci vorrà più di un secolo e mezzo affinché Valenza ripristini il proprio tessuto demografico: solo nel 1796 la città centro raggiungerà i 4.143 abitanti.
Un brano di rilievo che racconta i fatti di Valenza accaduti in quei giorni si trova nel libro “I Frati Minori Cappuccini della Provincia di Alessandria”, scritto da Padre Crescenzio da Cartosio, che dice: «A Valenza i nostri religiosi non attesero di essere pregati dalle Autorità, ma quando l’invasione del contagio fu ritenuta prossima ed inevitabile, col P. Guardiano Ludovico Bombelli da Valenza, si portarono dai Conservatori della Sanità ad offrire i propri servizi. Penetrata la peste in città fu eretto un lazzaretto fuori le mura dalla parte del Convento; e tutti i Religiosi facevano a gara nel prestare le più affettuose cure agli infermi. Anzi, non essendo stato organizzato, in quei principii il servizio d’approvvigionamento, i frati medesimi s’industriavano a cercar pane, vino, frutta, carne; ed il tutto veniva poi distribuito nei vari reparti dal laico Frà Onorato di Valenza. Il P. guardiano aveva fatto piantare una croce nel lazzaretto, e dinanzi a quella tutte le sere adunava i suoi Religiosi a cantar le litanie della Madonna, e poi con una campanella suonava l’Ave Maria. Dilatandosi tuttavia il contagio, ed essendo ormai troppo angusto l’improvvisato lazzaretto e perdipiù vicino alle mura, ne fu eretto un altro al di là del Po con un buon numero di capanne disposte attorno ad una chiesuola di legno ………. allora il P. Sante, che aveva ripigliato alquanto le forze, ritornato al lazzaretto, si aggirava fra le capanne e per i giacigli, appoggiato ad un bastoncello; e poiché urgeva il bisogno di assistenza spirituale in città, si serviva, pure con riluttanza, d’una cavalcatura messa a disposizione dai Conservatori della Sanità. Ma nuove fatiche aggravarono il suo stato, e ritenendo di aver presto a fine la vita si ritirò in una capanna remota del lazzaretto esclamando: “ Qui voglio morire con i miei poveri appestati”.
Come si seppe, la sua decisione fu un lutto, una costernazione fra la cittadinanza. Vennero le persone più ragguardevoli ed i Conservatori della Sanità, e lo indussero a ripararsi nella stanzetta assegnata ai Religiosi dove, curato con ogni riguardo, migliorò in modo da riprendere i suoi caritatevoli uffici sino alla fine del morbo. Questo cominciò a diminuire d’intensità alla prima domenica d’ottobre, festa della Madonna del Rosario, ed in breve scomparse totalmente. A ricordo della grazia, le Autorità ed il popolo di Valenza, per suggerimento del P. Sante fecero voto di celebrare quel giorno con particolare solennità e con una processione generale in onore del SS. Rosario. ……… Siccome la peste aveva assalito buona parte della nostra Comunità di Valenza si erano chiesti aiuto ai confratelli del convento di S. Matteo in Alessandria, e di qui erano stati mandati P. Francesco Didina da Valenza e Fr. Matteo Tischio d’Alessandria. Fr. Matteo divenne infermiere dei Religiosi e P. Francesco fu messo Cappellano del lazzaretto. Anch’egli si prodigò con tanto entusiasmo ed abnegazione, che, nello spazio di pochi giorni, contrasse il morbo e santamente si estinse».
Quattrocento anni dopo la peste del Seicento, la pandemia da covid-19 ha messo in stand-by l’intero pianeta con profonde disfunzionalità, non solo per incapacità ma alcune volte pure per retorica o finzione. E non sappiamo dire cosa sia peggiore. Eppure diverse dinamiche attuali non sono molto differenti da quelle di allora, mentre i morti, per fortuna, non sono paragonabili.