Brividi di celluloide: “Midsommar – Il villaggio dei dannati”
La stagione cinematografica estiva, pur nell’esiguità dei titoli in uscita nelle sale nazionali rispetto, ad esempio, al contesto americano, si configura tradizionalmente come il periodo di maggior attenzione verso il genere horror, che la fa da padrone sul grande schermo proponendo riflessioni più o meno splatter sul maligno che alberga, per lo più, nel cuore dell’uomo.
Ari Aster, uno degli autori più promettenti della nuova generazione di cineasti con il gusto narrativo per una dimensione orrorifica e fantastica, ha firmato negli ultimi anni poche ma significative pellicole, già considerate di culto, in cui alle atmosfere quotidiane – domestiche oppure legate al viaggio, alla vacanza, spesso attraversate da una luce estiva e rassicurante – fanno da contraltare oscure minacce di origine ignota. Non fa eccezione “Midsommar – Il villaggio dei dannati” (2019), fruibile sulle principali piattaforme per lo streaming.
È uno sguardo da entomologo, antropologico, quello lanciato da Ari Aster, giovane (classe 1986) regista newyorkese alla sua seconda prova e – per ora – ultima prova dopo il successo di “Ereditary – Le radici del male” (2018), sulla comunità neo-pagana (una sorta di mondo Amish, con qualche perversione di troppo) da lui messa in scena in “Midsommar – Il villaggio dei dannati”.
Uno sguardo che scruta, fruga, indaga tra le pieghe delle tuniche bianche (simbolo di purezza, sublimazione ossessiva di una tensione verso la riconquista di una verginità originaria) degli abitanti del villaggio svedese di Hårga, fra gli steli d’erba che seccano al sole cocente di mezza estate (il momento dell’anno in cui si celebra la tradizionale festa a cui fa riferimento il titolo, qui adattata alle macabre esigenze rituali diligentemente soddisfatte ogni 90 anni), il mormorio sommesso delle foglie, il lento ondeggiare delle vette degli alberi secolari. Quelle stesse cime che contempliamo con meravigliato stupore nelle inquadrature d’esordio del film, gravate dalla neve e da un silenzio irreale, rotto soltanto dal suono spezzato di un’acuta litania dolorosa (Aster, coadiuvato dal direttore della fotografia Pavel Pogorzeski, compie un grandioso lavoro sugli scenari naturali ungheresi che fanno da sfondo alla storia, restituendo panorami estivi assolati, solcati da una luce abbagliante, sfavillanti di verde e d’azzurro: un procedimento messo in atto già da Stanley Kubrick nel 1980, in “Shining”, come acutamente faceva notare – all’epoca – Emanuela Martini).
Il nuovo horror autorale, da Jordan Peele (il regista di “Scappa – Get out”, 2017, e “Noi – Us”, 2019) ad Ari Aster, appunto, sembra voler destrutturare l’impostazione ‘classica’ del genere (le atmosfere sinistre, il ricorso all’elemento soprannaturale e mostruoso) per immergere lo spettatore in un grottesco assolutamente quotidiano e per questo motivo tanto più perturbante (il freudiano ‘Das Unheimliche’), perché inatteso.
Nel viaggio alle radici del male di “Midsommar” – che è anche quello di Christian, Josh, Mark e Pelle, il gruppo di giovani antropologi protagonisti, con l’unica eccezione di Dani (la notevole Florence Pugh di “Lady Macbeth” di William Ordroyd, 2016), studentessa di psicologia preda di fragilità e ossessioni dopo la grave tragedia familiare in cui è stata coinvolta – l’abnorme e l’innaturale, il demoniaco e il perverso provengono da una dimensione domestica, rurale, ancestrale, addirittura dal recupero pedissequo di antichissimi culti e riti di passaggio e d’iniziazione, tipici dei popoli nordici.
L’ingresso in una dimensione altra, nel mondo infero, dentro un universo prismatico le cui regole sono, ovviamente, ribaltate (il riferimento ad “Alice nel paese delle meraviglie di Carroll”, così come all’incipit di “Shining” è d’obbligo), viene efficacemente visualizzato tramite la ricorrenza di movimenti di macchina inconsueti, finalizzati al rovesciamento della prospettiva e del punto di vista, figure circolari, sentieri che si smarriscono fra i boschi, gallerie che fungono da punti di arrivo e di accoglienza.
Al centro dell’interesse del regista, come già in “Ereditary”, la famiglia e la coppia disfunzionali, la contemporanea dissoluzione dei legami e delle tradizioni, in qualsivoglia contesto, per lasciare spazio alla loro versione sacrilega, sadica, infernale: impossibile non pensare a “Il villaggio dei dannati di Wolf Rilla” (1960) e ai remake successivi, compresa la versione di John Carpenter del 1995 e quella seriale britannica di quest’anno, ma con parecchia autonomia di scrittura.
Cuore e nucleo nevralgico del film, crocevia narrativo, protagonista di un primo piano finale enigmatico e spiazzante, beffardo e irrisorio come alcuni passaggi della storia (forse un po’ involuti, tanto da suscitare un’involontaria ilarità), è Dani, la prescelta, in definitiva, l’eletta, ‘regina di maggio’ che si ritrova – come Alice – esattamente là dove, forse da tempo immemore, è richiesta.
«”Midsommar” è fondamentalmente un “Mago di Oz” per perversi», spiega Ari Aster. «È un film di rottura, nello stesso modo in cui “Hereditary” è una tragedia familiare. È meno apertamente un film horror, ma funziona ancora in quello stesso spazio. È molto macabro, ma la gente non dovrebbe aspettarsi “Hereditary”». Gli fa eco il collega premio Oscar Jordan Peele: «Penso che Ari Aster abbia realizzato l’horror più idilliaco di tutti i tempi. Si è trattato delle immagini più atroci e inquietanti mai viste sul grande schermo. Eppure me le sono godute con la bocca spalancata e gli occhi sgranati. Questo film è letteralmente unico. Nessuno ha mai visto le cose che ci sono in questo film, e qualsiasi altro horror che uscirà dopo “Midsommar” dovrà affrontare il paragone».
“Midsommar”
Regia: Ari Aster (Usa, 2019, 140’)
Sceneggiatura: Ari Aster
Fotografia: Pawel Pogorzelski
Montaggio: Lucian Johnston
Musica: The Haxan Cloak
Cast: Will Poulter, Vilhelm Blomgran, Jack Reynor, Florence Pugh, Ellora Torchia, Archie Madekwe, William Jackson Harper
Produzione: B-Reel Films, Parts and Labor
Distribuzione: Eagle Pictures