Golden Globe 2022: “Il potere del cane”
Deliver my soul from the sword,
my darling from the power of the dog
(Thomas Savage, “Il potere del cane”)
«Salva l’anima dalla spada, salva il cuore dal potere del cane». Così – con un versetto contenuto nella traduzione inglese del Libro dei Salmi – si apre “The Power of the Dog”, il romanzo western dello scrittore americano Thomas Savage dato alle stampe nel 1967 e ripubblicato nel 2016 nella versione italiana da Neri Pozza: un racconto in cui il vecchio e selvaggio West non smentisce la sua fama di ambiente ruvido e selvaggio, dove le passioni sfociano aspre e indomabili.
Fa eco a questa rappresentazione decadente di un luogo irto di contraddizioni e popolato da personaggi – sia maschili che femminili – dominati da pulsioni inconsce e incontrollate, l’omonimo film della regista neozelandese Jane Campion, che ritorna sul grande schermo dopo dodici anni di assenza (“Bright Star”, sulla figura del poeta John Keats e la sua contrastata storia d’amore con la studentessa Fanny Brawne risale al 2009), facendo incetta di premi: prima a Venezia – lo scorso settembre – con il Leone d’argento per la miglior regia; poi alla recente (si è svolta il 9 gennaio) cerimonia di assegnazione dei Golden Globes 2022, nelle categorie miglior film drammatico, miglior regista e miglior attore non protagonista (il giovane attore australiano Kodi Smit-McPhee).
L’enigmatico (ma anche emblematico, una volta che si approda alla fine di una storia in cui le connessioni significanti sono assai sottili e di non immediata comprensione, sia nel romanzo originario che nel film della Campion) titolo – “Il potere del cane” – istituisce un doppio riferimento, sia geografico che simbolico: da un lato c’è una collina rocciosa con il profilo di un cane in corsa, che fa da sfondo – sulla linea d’orizzonte di sconfinati territori a pascolo, nel Montana del 1925 (ma la location effettiva del film è in Nuova Zelanda, tra Maniototo, la regione di Otago e Dunedin) – alla vicenda. Dall’altro, c’è quel versetto dell’Antico Testamento, in un passo in cui i cani incarnano l’affollarsi caotico degli istinti, anticipatore di quella violenza e del tradimento che hanno dominato gli ultimi momenti di vita del Cristo.
È solo tenendo presente questo collegamento non così evidente che è possibile mitigare almeno in parte la complessità interpretativa di quest’opera conturbante, che mette in campo in maniera sottile e – a tratti – ambigua il groviglio di sensazioni, pulsioni e dinamiche contrapposte che agitano il cuore umano. A partire da quello turbolento e, in apparenza, torbido di Phil Burbank (Benedict Cumberbatch), rude, solitario e omofobo allevatore di bestiame, proprietario di un ranch che conduce insieme al fratello George (Jesse Plemons).
A livello narrativo la pellicola è dominata dall’irreversibile alterità caratteriale che separa i due fratelli: tanto Phil è incarnazione di una mascolinità autoreferenziale e stereotipata, sterilmente attaccata a tradizioni e idealizzazioni di un passato che non potrà più tornare, anche a causa della progressiva trasformazione di usi e costumi (vedi l’aura mitica attribuita dall’uomo alla figura di Bronco Harry, virile mentore di gioventù sublimato sino all’interiorizzazione); quanto George è mite, accomodante, diplomatico e signorilmente aperto ai tempi nuovi.
In mezzo ai due si muove una coppia di personaggi in grado di scardinare il già fragile equilibrio di rapporti e costrutti sociali di casa Burbank: una polarità maschile-femminile ben esemplificata da Rose Gordon (Kirsten Dunst), ancora giovane vedova di un medico morto suicida, e dal figlio Peter (Kodi Smit-McPhee).
Kirsten Dunst interpreta Rose Gordon in “Il potere del cane”
L’ingresso in fattoria di Rose e Peter in seguito al matrimonio della donna con George, li rende entrambi vittime del disprezzo maschilista e narcisistico di Phil (la prima in quanto elemento femminile attraente e castrante nello stesso tempo; il secondo perché espressione di una personalità femminea fortemente respinta), scatenando all’interno di questo triangolo familiare l’emergere di pulsioni inconsce disordinate e contraddittorie.
L’assunto della storia parrebbe – sin qui – neppure troppo originale, già declinato da altro cinema e varia letteratura. Ed è proprio a questo punto che lo spettatore non dovrebbe dimenticarsi del ‘potere del cane’ e di quel riferimento al profilo di una collina che si staglia come un simbolo talmente esibito di fronte allo sguardo da venire ignorato (solo Phil e Peter – non a caso – riescono a percepirne la fisionomia): così come del frammento di salmo biblico, magnificamente condensato nella figura efebica e delicata del figlio di Rose e – in parallelo – in talune abitudini del medesimo (ad esempio, quella più stridente rispetto alla totalità del suo carattere: catturare conigli allo scopo di vivisezionarli per i suoi studi di medicina).
È qui, nell’ambiguità di una giovinezza a prima vista debole e minoritaria rispetto alla presunta virilità cieca e brutale con cui viene a contatto, che si capovolge e deflagra la prospettiva iniziale di questo film disturbante, metodico e persino pignolo nella registrazione dei dettagli minimi (piccoli gesti, occhiate eloquenti, frasi smozzicate) che fungono come porte spalancate su verità e abissi sorprendenti dell’animo umano.
Jane Campion immerge il suo ennesimo viaggio filmico di esplorazione antropologica nei marroni e negli ocra bruciati, nei verdi saturi di un paesaggio pianeggiante e spesso vuoto, attraversato dalla polvere e dalle ombre delle nuvole: un paesaggio fordiano – come è stato notato – ripreso in ampie panoramiche e con un gusto per la simmetria e per l’eleganza della composizione che si rivela anche negli interni, spesso chiaroscurali, dove la luce fioca – esaltando per contrasto le zone d’ombra – pare voler evocare l’assunto che nulla (e nessuno) è come sembra.
Intervistata da Max Borg di “Movie Player” lo scorso ottobre (www.movieplayer.it – 7/12/2021), mentre era ospite a Lione del Festival Lumière che le ha assegnato il 13° Prix alla carriera, la Campion ha raccontato il suo particolare approccio al concetto di regia al femminile; una prospettiva che si è poi riflessa nel certosino lavoro di preparazione a “Il potere del cane”:
«Sì, ma ci tengo a precisare che non mi considero una regista donna. Sono una regista, punto. Mi dà fastidio la precisazione, perché solitamente nessuno parla di ‘registi uomini’. Non credo che ci sia una grande differenza tra uomini e donne dietro la macchina da presa: per le due stagioni di “Top of the Lake” ho lavorato con due colleghi maschi [Garth Davis per la prima e Ariel Kleiman per la seconda, n.d.r.], e non c’era una vera differenza di approccio […] Penso che uno non capisca veramente le proprie opere fino a dopo l’uscita, quando comincia a parlarne. Questo film è profondo, scava nell’inconscio, e non capivo cosa mi attirasse verso quel mondo fino a quando ero già a lavorazione inoltrata. La psiche lavora in modo molto originale, e se ho un’energia molto potente in relazione a un mio lavoro so che vale la pena continuare. A volte sono gli attori a svelare quell’energia. […] Il mio lavoro è entrare in quei personaggi, il più possibile. Quello interpretato da Benedict Cumberbatch era una sfida, e mi sono avvalsa delle teorie sui sogni. Ho lavorato con una specialista junghiana, che fa questo genere di analisi a livello di sceneggiatura. A seconda delle scene, mi faceva immedesimare con Phil e poi mi chiedeva che cosa servisse a me, a Jane, per raccontare la storia. E lui a volte rispondeva in modo molto duro […]. Questo vale per tutti i personaggi, chi racconta storie deve avvicinarsi a tutte le sfaccettature, al lato tenero come a quello più cupo. È questa la parte affascinante del nostro mestiere».
“Il potere del cane” (“The Power of the Dog”)
Origine: Regno Unito, Australia, Stati Uniti, Canada, 2021, 126’
Regia: Jane Campion
Sceneggiatura: Jane Campion, Thomas Savage
Fotografia: Ari Wegner
Montaggio: Peter Sciberras
Musica: Jonny Greenwood
Cast: Benedict Cumberbatch, Kirsten Dunst, Geneviève Lemon, Jesse Plemons, Kodi Smit-McPhee, Kenneth Radley, Sean Keenan, George Mason, Ramontay McConnell, David Denis, Cohen Holloway, Max Mata, Josh Owen, Alistair Sewell, Eddie Campbell
Produzione: See-Saw Films, Brightstar, Max Films International, Bbc Films, Cross City Films, New Zealand Film Commission
Distribuzione: Lucky Red, Netflix