Tra “Mulholland Drive” e “La voce della luna”: la necessità del silenzio
«Silencio…» (“Mulholland Drive”)
«Eppure se ci fosse un po’ di silenzio, se tutti facessimo un po’ di silenzio…forse qualcosa potremmo capire» (“La voce della luna”)
“Mulholland Drive” – il film ‘cult’ di David Lynch – è tornato a incantare in versione restaurata gli spettatori di oltre cento sale italiane dal 15 al 17 novembre, nell’occasione del ventennale dalla sua prima uscita al cinema (nelle sale americane il 12 ottobre 2001; soltanto il 15 febbraio dell’anno successivo in quelle italiane), grazie all’iniziativa della Cineteca di Bologna ‘Il Cinema Ritrovato al cinema’, attraverso la quale vengono riportati in sala i classici restaurati.
Pellicola seducente sia per estetica che per contenuti, misteriosa e ambigua come le sue due protagoniste – Betty (Naomi Watts) e Rita (Laura Harring) – che continua a stimolare, a dispetto dei suoi vent’anni, i sensi e la ragione di chi decide di farsi avvolgere dalle sue atmosfere oniriche, surreali, “Mulholland Drive” è uno dei soli due titoli degli anni Duemila a essere entrato nella famosa classifica dei cento migliori film della storia del cinema, redatta ogni dieci anni dalla rivista ‘Sight & Sound’.
Il film, definito dal suo stesso autore «una storia d’amore nel mondo dei sogni», affonda le sue lontane radici nella puntata pilota di una serie che non ha mai visto la luce, ideata a partire dal successo mondiale di “Twin Peaks”; “Mulholland Drive” venne, poi, acquisito e prodotto da StudioCanal, che ne ha curato il restauro sotto la supervisione dello stesso Lynch.
Alla sua uscita sugli schermi la pellicola ha fatto incetta di riconoscimenti: dal premio alla regia al Festival di Cannes 2001, ex-aequo con “L’uomo che non c’era” di Joel Coen, al premio César come miglior film straniero e a quattro Golden Globes, oltre a una candidatura per la miglior regia agli Oscar 2002 e un’altra ai Nastri d’Argento per la regia del miglior film straniero.
Il conturbante lungometraggio di Lynch è stato anche premiato dai prestigiosi “Cahiers du cinéma” come miglior film degli anni 2000, ed è arrivato primo nella classifica della BBC “I 100 migliori film del ventunesimo secolo”.
A proposito del film, Piera Detassis, su “Panorama” del 10 gennaio 2002, scrive: «Inizio avvincente, come sempre in Lynch. Un’ora almeno di cinema puro, trasognato, disperato, perturbante, sensuale. Dopo quell’ora neppure Lynch sa più esattamente cosa stia raccontando, ma lo racconta a meraviglia. Per gli irriducibili di “Twin Peaks”, “Velluto blu”, “Strade perdute”, per chi di Hollywood non percepisce il sogno ma l’incubo».
Dal canto suo, David Lynch, in una raccolta di interviste a cura della giornalista Kristine McKenna pubblicate nel volume del 2018 “Lo spazio dei sogni” (Mondadori), racconta:
«Io abito vicinissimo alla Mulholland Drive e la faccio molto in auto. È veramente una strada misteriosa, selvatica in diversi punti. Ha due corsie, è piena di curve, si sente che è una vecchia strada. Se ci guidi di notte è come volare in cima al mondo. Se ne percepisce l’antichità, anche se naturalmente è stata sistemata nel corso degli anni. Ma si percepisce la paura, percepisci la storia di Hollywood su quella strada. […] “Mulholland Drive” è iniziato come un episodio televisivo pilota dal finale aperto. Io amo le storie in divenire e nella soap opera c’è qualcosa di fantastico, perché potrebbe davvero andare avanti all’infinito. La Tv via cavo non aveva i soldi per qualcosa di questo genere. A un certo punto, la ABC television ha finanziato il progetto principalmente perché avevamo già fatto “Twin Peaks” con loro, avevo scritto una sceneggiatura di “Mulholland Drive”, e ne sembravano contenti. Durante la realizzazione niente andò storto, fu magnifico. Niente indicava che si sarebbe verificato un disastro quando due responsabili esecutivi della rete visionarono il pilota montato e finito. Mi giunse voce che a loro non era piaciuto il ritmo e che non erano interessati. Ma nessuno mi ha chiamato e detto nulla».
In apparenza (ma il rapporto, il sempiterno conflitto tra l’apparire e l’essere rappresenta una delle possibili chiavi di lettura di entrambi i film) e a un livello di lettura puramente epidermico, l’eccesso di divergenze narrative e formali potrebbe giustificare una domanda sul senso di istituire una relazione tra “La voce della luna”, l’opera ultima (1990) di Federico Fellini e la nona dell’eclettico regista americano.
Eppure, come in fondo continuano insistentemente a consigliarci entrambi con la totalità del loro cinema, se si guarda attentamente, se davvero si presta attenzione, al minuto, al dettaglio, a certi indizi quasi-invisibili, beffardamente disseminati dalla mano di uno sconosciuto demiurgo appena dietro l’angolo (e l’orizzonte del nostro sguardo), le affinità emergono, come un filo rosso che passa, senza soluzione di continuità, dall’uno all’altro.
C’è il grande sogno del cinema, come illusione e rappresentazione: le grossolane feste di paese, canterine e danzanti, la luna catturata e trasmessa su piccolo schermo, la sala da ballo ‘sui generis’ dove Gonella nostalgicamente volteggia sulle note di un valzer di Strauss, ne “La voce della luna”; il vacuo e vuoto rito dei party e dei provini hollywoodiani, lo scambio di identità fra individui, attori (o aspiranti tali) e i loro ruoli, il fremente e conturbante spettacolo teatrale del Club Silencio, con le sue fantasmagorie surreali, e la strada lucida e nera che si snoda come un nastro di celluloide sino a lambire le colline della ‘città dei sogni’, in “Mulholland Drive”.
C’è il cinema come sogno, ambiguo meccanismo onirico, espressione di un inconscio (personale e collettivo) nevroticamente ossessivo, malato, perso (in entrambi i film) dietro i miti e i riti di un quotidiano divenuto volgare, superficiale, consumistico e in cui l’essere, tragicamente, non può che coincidere con l’apparire.
C’è la consapevolezza (malinconica in Fellini; disperata e – di conseguenza – suicida in Lynch) dell’impossibilità di modificare il volto delle cose, di trasformare sé stessi, o anche soltanto di trovare un metodo palliativo, un lenimento alla propria pena: se non rifugiandosi ingenuamente, come fanno i ‘matti’ Gonella e Salvini, nella poesia del creato e dell’uomo; o soccombendo ai sogni, non importa se elaborati dalla propria mente o stampati sul copione, come accade a Betty/Diane.
C’è, infine, ed è forse l’elemento-chiave di entrambe le opere, la voce del silenzio: che è, autenticamente, ‘voce della luna’, del sogno che non si trasforma in incubo rischiando di fagocitare la realtà tutta, il vissuto quotidiano dell’uomo; del sogno-poesia-immaginazione-follia lucida e, insieme, ascolto dei bisogni, del proprio e dell’altrui canto.
Quel silenzio intessuto di voci che – ci insegna Fellini lasciandoci – nel nostro tempo smemorato quanto bisognoso di ricordi infantili, di sogni lirici e lievi e di realtà non edulcorate, sanno ascoltare, oramai, soltanto i visionari.
Quel silenzio, quell’acquietarsi della mente e del cuore che deriva dall’ascolto consapevole dei propri desideri, come dalla presa di coscienza degli inevitabili limiti: lo stesso silenzio che Lynch ci esorta a ricreare dentro il teatrino rosso della nostra anima, prima di cadere fragorosamente – come Diane/Betty – dentro l’inarrestabile deriva della propria vita.
“Mulholland Drive”
Regia: David Lynch
Origine: Usa, 2001, 145’
Cast: Naomi Watts, Laura Elena Harring, Ann Miller, Justin Theroux, Chad Everett, Billy Ray Cyrus, Robert Forster, Mark Pellegrino, Dan Hedaya, Brent Briscoe
Soggetto: David Lynch
Sceneggiatura: David Lynch
Fotografia: Peter Deming
Musiche: Angelo Badalamenti, David Lynch, John Neff
Montaggio: Mary Sweeney
Scenografia: Jack Fisk
Arredamento: Josh Fifarek, Barbara Haberecht
Costumi: Amy Stofsky
Effetti: Philip Bartko, Gary D’Amico, David Domeyer, Catalyst Fx, Electric Sandbox Productions, K.N.B. Effects Group
Produzione: Touchstone Television – Imagine Television – The Picture Factory – Asimmetrical Productions – Le Studio Canal+ – Les Films Alain Sarde
Distribuzione: 01 Distribution