I social: beni privati o beni pubblici?
Considerazioni a bocce ferme a valle del blackout di Facebook, Instagram e WhatsApp
Quando lunedì sera, nonostante avessi letto del blackout che in tutto il mondo aveva interrotto il funzionamento di Facebook, Instagram e WhatsApp, mi sono ritrovato più volte ad aprirne senza pensarci le app, mi sono reso conto di quanto il loro uso fosse diventato in me un riflesso condizionato oltre che un bisogno entrato profondamente nelle mie abitudini.
Con la TV accesa sullo spoglio elettorale e il cellulare a caricare le pagine dei siti locali per verificare le condizioni del tempo, mi sono venuti due pensieri, uno leggero ed uno più serio: se mi hanno strappato un sorriso i messaggi di benvenuto riservati da Twitter a chi si sentiva orfano dei social network di casa Zuckerberg ed era ricorso a tale sito per verificare le condizioni del loro ripristino e intanto guardare i tanti meme che ne celebravano la resistenza, ho nel contempo preso una concreta consapevolezza della misura con la quale un (quasi) monopolio privato rappresenti oggi il sistema operativo delle nostre vite: su Facebook, WhatsApp e Instagram si scambiano comunicazioni familiari, di lavoro, di svago così come viaggia l’informazione e diventa relazione con le persone con cui si condivide la vita di una comunità.
Scrollare le spalle di fronte al problema tecnico che ha reso irraggiungibili i server di Facebook per ore, per il periodo più lungo della sua vita, e minimizzare pensando che in ogni caso esistono le telefonate, gli sms ed altri strumenti digitali di comunicazione significa non riconoscere che “il mezzo è il messaggio” e ragionevolmente inferiori lunedì sono state le conversazioni che abbiamo avuto, meno veloci le informazioni condivise, più distanti le persone al di fuori della nostra casa. Il fatto che tutto questo sia avvenuto in una notte di maltempo in provincia, e in una situazione in cui il nostro territorio ha imparato quanto le preoccupazioni, i disagi e i pericoli possano essere affrontati attraverso una circolazione più efficiente e rapida dell’informazione dà la misura del rischio corso e dell’opportunità di consultare, in questi casi, i siti locali e seguire il profilo Twitter della Protezione Civile alessandrina @PcProvAl.
La lettura delle perdite subite da Facebook (65 milioni di dollari) e le Stories in cui i Ferragnez hanno fatto auto-ironia sul silenzio forzato a cui sono stati condannati non debbono dunque distoglierci dal guardare in faccia la realtà. Facebook è usato in Italia da 35 milioni di persone, WhatsApp da 33, Instagram da 30 e, nonostante che non passi giorno in cui non emergano, sia sul piano pubblico che nell’esperienza di ciascuno di noi, ragioni per abbandonarle, tali piattaforme e le regole per parteciparvi, pur essendo proprietà di un soggetto privato statunitense, rappresentano in misura crescente nella società il ruolo che svolgono le strade o l’elettricità: “beni pubblici” eppure soggetti al profitto dei suoi azionisti, agli interessi da cui dipende la loro regolamentazione, ai guai tecnici del loro funzionamento. Non a caso, crescente è il dibattito negli Stati Uniti in merito all’opportunità, come è accaduto sul finire del ‘800 con lo Sherman Act, di servirsi della legislazione antitrust per limitare la loro concentrazione e quindi distribuire i rischi in società differenti, come accaduto nel mondo petrolifero, della telefonia, dei trasporti ferroviari.
Se martedì mattina vi siete svegliati e, con un certo sollievo, avete constatato che le Storie di Instagram ed i messaggi di WhatsApp erano ancora lì a portata di dita o di voce, quel sollievo forse è stato accompagnato anche dal ricordo, la sera prima, di una telefonata piacevole o della lettura di un buon libro, al riparo per un po’ dello squillo delle notifiche e al rumore di fondo della prima pioggia d’autunno.