“Body and Souls: il corpo nero, #BlackLivesMatter e il cinema afrosurrealista” di Lapo Gresleri
Lapo Gresleri – critico e storico del cinema, operatore culturale e docente, oltre che collaboratore esterno della Cineteca di Bologna dal 2009 – da parecchi anni si occupa principalmente di cinema afroamericano, del quale è uno tra i più autorevoli conoscitori.
Dopo aver approfondito la personalità cinematografica di uno dei massimi registi di origine africana, in “Spike Lee. Orgoglio e pregiudizio nella società americana (Bietti Heterotopia, 2018), Gresleri ritorna a parlare del cinema ‘black’ in questo 2021 con “Body and Souls: il corpo nero, #BlackLivesMatter e il cinema afrosurrealista”, ancora edito da Bietti nella nuova collana Fotogrammi.
L’opera – assai pregevole per sinteticità e chiarezza espositiva, che permettono anche al lettore meno ferrato di comprendere con facilità il percorso critico proposto – si configura come un esauriente trattato su temi e forme del cinema afroamericano contemporaneo, specie per quanto ne concerne i più recenti sviluppi: dal filone afrosurrealista alla corporeità assunta come precipuo strumento di conoscenza di sé da parte dell’individuo afroamericano, sino all’acquisizione di un’inedita coscienza sia individuale che sociale, scevra da vittimismi o da distorte manipolazioni da parte della collettività bianca.
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Abbiamo rivolto a Lapo Gresleri alcune domande per evidenziare gli snodi narrativi primari del suo ultimo lavoro, che risulta di notevole interesse – per i suoi risvolti sociologici – anche a chi non coltiva interessi cinefili spiccati.
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D. In che direzione si muove, quali sono i contenuti e gli stilemi principali del nuovo cinema afroamericano?
R. Fedele ai canoni della Black Aesthetic degli anni Sessanta – ricerca di nuove forme espressive rivolte prevalentemente al pubblico nero, intenti contestatari del sistema bianco, forte coscienza storica, funzione dell’arte come strumento educativo – il nuovo cinema afroamericano sta rinnovando l’iconografia legata al nero statunitense ieri come oggi. Si sta creando, cioè, un nuovo immaginario collettivo, espressione di una nuova tendenza afrocentrica che guarda allo stato della nazione senza più vittimismi, in una prospettiva democratica che ne influenzi e rinnovi la mentalità. Molto interessante in tal senso è il peculiare approccio ai generi cinematografici, una revisione degli stilemi hollywoodiani che ne ribalta gli assiomi portanti, sfruttando un linguaggio comune ormai assimilato dal pubblico per comunicare altri contenuti.
D. Nel cinema afroamericano odierno sembra avere assunto una certa importanza il filone afrosurrealista: puoi farci qualche esempio, delineando temi e forme?
R. Il termine è stato coniato dal poeta e scrittore Amiri Baraka nel 1974 per definire l’opera del romanziere Henry Dumas, caratterizzata da un immaginario criptico e metaforico spesso connesso ai miti ancestrali africani. Questi racconti dell’assurdo descrivono la realtà nera statunitense del tempo, talmente assurda e irrazionale da dover essere traslata nell’irreale, pur senza perdere l’approccio critico verso certi atteggiamenti del popolo nero e la negligenza della classe dirigente bianca. Nel 2009, l’intellettuale D. Scott Miller – su approvazione dello stesso Baraka – redige il Manifesto dell’Afrosurrealismo in cui è stilato il decalogo del movimento. La corrente trans-artistica abbraccia il mistico e il metaforico non per fantasticare sul futuro nero come l’Afrofuturismo, bensì per parlare del presente e delle esperienze surreali che lo contraddistinguono. Anche il nuovo cinema nero si sta orientando verso questa direzione. Basti pensare a Jordan Peele e Boots Riley, autori che fanno di eccesso, finzione, ibridazione e distorsione del reale gli strumenti primari di una forte critica al sistema contemporaneo e in particolare al ruolo di ‘mite sottomesso’ che il nero ancora oggi riveste nella società nazionale.
D. Nel tuo saggio citi tre pellicole recenti, fondamentali per quella che è la nuova rappresentazione del rapporto tra gli afroamericani e l’America stessa: si tratta di “Scappa – Get Out” e “Noi” di Jordan Peele, oltre che di “Sorry to Bother You” di Boots Riley. Quali sono le innovazioni narrative e stilistiche di questi film?
R. Guardando ai film di Peele risulta evidente che gli stilemi dell’horror siano un pretesto per affrontare temi ben più complessi. Nelle sue opere l’ipocrisia dell’America post-razziale, che ha fatto di Obama il simbolo di un posticcio progressivismo, si manifesta proprio nel rapporto con l’altro, con il diverso da sé. “Scappa – Get Out” si fa ad esempio riflessione sulla questione dell’appropriazione e sfruttamento dei corpi neri per mano di bianchi, nel passato come nel presente, dalla schiavitù allo spettacolo e allo sport: oggetti esotici e idolatrati di una disumanizzante e contorta forma di razzismo. Una passività non voluta ma subìta dall’afroamericano, impossibilitato ad affermarsi da sé, sempre costretto – invece – a passare dall’approvazione e dalla benevolenza dei bianchi. Con “Noi”, il regista newyorkese riprende i toni orrorifico-surreali, ma sviluppa un discorso più complesso profondamente radicato nella cultura e nella storia nera statunitense. La vicenda della famiglia afroamericana Wilson, intenta a difendersi da misteriosi ‘doppi’ assetati di vendetta emersi da un dedalo sotterraneo che attraversa l’America, offre un interessante punto di partenza per riflettere sulla società trumpiana e l’eredità di Obama. Gli Incatenati, come si definiscono, sono dei cloni, un esperimento poi abbandonato dal Governo al fine di sostituire gradualmente i cittadini con loro copie perfette ma malleabili e prive di coscienza. Ritorna, dunque, l’idea di manipolazione, possesso e uso del corpo già trattata in “Scappa”, ma qui Peele evidenzia l’impossibilità ancora presente per il nero nella società nazionale di poter essere pienamente se stesso, l’obbligo a rinunciare (in alcuni casi estremi a sopprimere) a una parte di sé per compiacere la maggioranza ed essere ammesso al grande sogno bianco a stelle e strisce. “Sorry to Bother You” di Boots Riley presenta, invece. un altro registro narrativo, esasperato dai toni afrosurreali per proporre un’interessante e riuscita rappresentazione del mondo del lavoro proletario americano. L’ambiente del call center che fa da sfondo alla prima parte del film, incentrata sulla scalata ai vertici del protagonista Cassius Green da anonimo addetto alle chiamate a dipendente del mese, fino alla promozione ai piani superiori tra i migliori televenditori, è rappresentato con una comicità dell’assurdo sul genere di Spike Jonze o Michel Gondry. Ma è la seconda parte a rivelare il lato più oscuro della pellicola. Convocato dal suo superiore, Cassius scopre la vera attività dell’azienda per cui lavora: creare una sostanza che trasformi i dipendenti in Equisapiens, uomini-cavallo capaci di mantenere ritmi lavorativi impensabili, dotati di grande forza, resistenza e un’assoluta abnegazione al proprio compito. L’idea del possesso e della manipolazione bianca già espressa da Peele torna qui in un rapporto capitalista di consumo e profitto in cui l’idea dell’uomo-cavallo si dimostra il paragone ideale per rappresentare l’identità afroamericana nella società contemporanea, un retaggio della concezione razzista dello schiavo, un’immagine di primitivismo e mostruosità animalesca.
D. Il tema del corpo accomuna, in una molteplicità di espressioni, diverse opere del cinema afroamericano contemporaneo: quali ne sono gli esiti più significativi?
R. Il tema del corpo è il ‘fil rouge’ che accomuna, pur se in molteplici e poliedriche forme, opere e autori del cinema afroamericano contemporaneo, non più trattato sul solo piano estetico-iconogra-fico come in passato tramite le icone ‘black’ dello ‘star system’ hollywoodiano, quanto soprattutto su quello sociale e ancor di più culturale. Come abbiamo visto, il corpo diviene il mezzo attraverso il e sul quale l’afroamericano fa esperienza della propria natura: ferito, vittimizzato, ma al contempo esaltato, si fa metafora diretta della resilienza nera, una resistenza all’ambiente esterno che nasce da percorsi individuali, dettati da fattori ambientali che il singolo si trova a vivere. Il nero così esperisce, letteralmente sulla propria pelle, il senso della sua alterità, ora vissuta, però, non più come colpa, ma con l’orgoglio che viene da una profonda coscienza di sé e del proprio passato collettivo.
D. Da Spike Lee al nuovo cinema afroamericano: qual è il punto di raccordo, alla luce del supporto offerto dal regista al movimento pacifista #BlackLivesMatter, anche attraverso i suoi due ultimi lungometraggi “BlacKkKlansman” e “Da 5 Bloods. Come fratelli”?
R. Spike Lee è stato l’apripista di una nuova coscienza artistica afroamericana che si è tradotta in un modo innovativo di concepire e rappresentare la ‘blackness’ al cinema e – in senso più ampio – nella cultura statunitense, sapendone riconoscere pregi e difetti, entrambi raccontati senza remore in ritratti più sfumati e complessi ma senz’altro più vicini al vero. Fedele ai princìpi dell’autorappresentazione che è da sempre costante della cultura nera americana, Spike ha raccontato la realtà nazionale attraverso il linguaggio universale del cinema hollywoodiano, facendo dei propri film opere capaci di raggiungere ogni pubblico senza mai risultare distante; riuscendo – anzi – spesso ad anticipare questioni e problematiche che si sarebbero presentate nel tempo a venire. Il suo apporto è stato fondamentale per molti giovani autori neri che come lui stanno rinnovando dall’interno il sistema cinematografico hollywoodiano, offrendo personali quanto valide letture della complessità nazionale coeva e cercando di stimolare una riflessione e una sensibilità collettiva sulle dinamiche etniche che caratterizzano il tessuto statunitense e di cui #BLM è senz’altro una delle espressioni più significative e riuscite.
D. Quale sarà, a tuo parere, l’evoluzione del cinema afroamericano in futuro e quale ruolo avrà in esso la figura di Spike Lee, già protagonista del tuo volume monografico “Spike Lee. Orgoglio e pregiudizio nella società americana”?
R. Il cinema afroamericano gode oggi di un successo e un’attenzione culturale prima d’ora impensabile. Suppongo che come la realtà che si prefigge di raccontare, questa cinematografia prenderà senz’altro strade diverse, trovando nuovi spunti e nuove forme narrative per riflettere sulle grandi questioni irrisolte del Paese: una responsabilità enorme che ci si augura non venga trascurata perché l’arte e i mezzi di comunicazioni sono strumenti potentissimi, che se ben sfruttati possono contribuire enormemente a far maturare le idee. Spike Lee è da sempre acuto osservatore del presente, capace di intercettare le grandi correnti intellettuali del suo tempo e inserirvisi al suo interno apportando un proprio contributo personale. Come in “BlacKkKlansman” e “Da 5 Bloods. Come fratelli” ha abbracciato la rilettura storica americana offerta da un certo cinema ‘black’, non mi stupirei se prossimamente, con lo stile provocatorio che da sempre lo caratterizza, invitasse il suo pubblico a fare la cosa giusta ponendosi domande e cercando risposte sulle grandi questioni sociali americane e non solo.