L’Etichetta
L’inaugurazione era filata liscia. Molti consensi. Educati battimani all’entrata dell’artista. La giusta quota di selfie scattati vicino alle opere d’arte.
Si potevano già quasi tirare le somme, visto che la galleria era lì lì per chiudere. Era talmente tardi che l’autore delle opere esposte aveva già lasciato la mostra sotto braccio al curatore, diretti a passo spedito verso chissà quale party nel quale, a quell’ora – si bisbigliavano l’un l’altro per spronarsi a vicenda – addirittura già nevicava, nonostante si fosse nel mese di giugno!
Eppure un certo capannello di ritardatari ancora si soffermava intorno all’opera principale dell’intera esposizione. D’altronde erano tutti lì soprattutto per quella (oltre che per l’annunciato buffet, che godeva ogni volta di un innegabile richiamo), specie dopo avere ascoltato la splendida recensione che, dietro adeguato compenso, ne aveva fatto il più grande critico d’arte della nazione (almeno per quanto ne sapevano loro, che non ne conoscevano altri): «Con l’opera intitolata Mondo De Barecedo stavolta ha veramente superato se stesso: nella sua semplicità essa raccoglie tutto un nugolo di interpretazioni pressoché infinito» aveva infatti scritto sul catalogo e intonato per televisione Littorio Barbie, ripetendolo, se non proprio con convinzione perlomeno con un’invidiabile faccia da poker, quello stesso pomeriggio, all’apertura della mostra. Appena in tempo: un attimo prima cioè dell’ennesimo attacco ischemico che lo aveva poi costretto a fare un breve salto al più vicino ambulatorio, prima di recarsi all’altrettanto pregevole (nonché remunerativa) mostra d’artista, tenuta a una trentina di chilometri da lì.
TORNA AL BLOG DI PEE GEE DANIEL
Quello che osservavano aveva tutta l’apparenza di un carrello per le pulizie, con tanto di secchi mezzi pieni di acqua e detersivo e un paio di Mocio Vileda a pendere dalle parti. A proteggerlo un parallelepipedo in plexiglas, sul quale, più o meno a metà, spostata verso destra, c’era appiccicata un’etichetta gommosa con le lettere a rilievo che recitava: “L.De Barecedo, Mondo, 2017”.
I cultori neofiti lì intorno erano ammirati: «Che bel ready-made!» si sbilanciò il trentenne coi baffi che masticava un po’ di inglese.
«L’opera ci riporta al significato originale di mundum, ossia: pulito.» spiegava il signore di mezz’età che ancora rammentava un po’ di latino.
«Per certi versi ricorda il miglior Spoerri» commentava la madamina che si era fatta tenere le dispense d’arte dall’edicolante di fiducia.
Intanto, a breve distanza, la Gina, non vista, li osservava con fastidio, dall’alto in basso, più che per una superiorità morale grazie alla posizione conferitagli dal largo piedistallo su cui poggiava i piedi piatti, mentre finiva di lucidare, con abbondante olio di gomito, la superficie di un vasto boccione a chiusura ermetica contenente una mezza dozzina di pesci morti galleggianti in un paio di litri di acqua putrida.
«Ma quando se ne vanno questi? Che se qua non si sbrigano a chiudere la baracca mi perdo il 12 barrato e devo aspettare quello appresso…» non faceva che borbottare tra sé.
Scalpitava attendendo solo più che quella calca di tiratardi si allontanasse dai suoi attrezzi da lavoro, su cui aveva momentaneamente appoggiato la teca in plexiglas, per poi rimetterla sopra l’opera di De Barecedo che andava testé tirando a lucido.