Jojo Rabbit e l’amico immaginario
Waititi sceglie l’alternanza tra un registro corrosivamente umoristico e uno molto più drammatico e amaro (che si succedono il più delle volte senza soluzione di continuità) per evidenziare l’assurdità di un regime e del suo apparato gerarchico
CINEMA –
Lascia che tutto ti accada, bellezza e terrore.
Continua ad andare avanti.
Nessuna sensazione è definitiva.
(Rainer Maria Rilke)
«Non si tratta di me che cerco di fare un film ebraico, si tratta più di voler sondare i terribili atti che la gente commette durante la guerra, nonostante le lezioni che avremmo dovuto imparare dal passato». Il regista neozelandese (ebreo russo per parte di madre) Taika Waititi racconta con sincerità alla rivista “Empire” le ragioni – anche di natura autobiografica e piuttosto lontane nel tempo – che l’hanno condotto, dopo le esperienze di Boy (2010) e del recente blockbuster Marvel Thor: Ragnarok (2017), a girare e produrre un film come Jojo Rabbit, candidato a ben sei premi Oscar.
Sin da quando aveva l’età di Johannes Betles (soprannominato Jojo), il bambino tedesco protagonista del suo ultimo lavoro, Waititi ha iniziato a interrogarsi sulla figura di Adolf Hitler, di cui lo aveva colpito l’effetto straniante suscitato dalla sua pettinatura, i baffi alla Charlie Chaplin.
In età adulta, proprio durante le riprese di Boy, tramite sua madre il regista viene a contatto con il romanzo di Christine Leunens Il cielo in gabbia (pubblicato nel 2004 con il titolo originario Come semi d’autunno), che racconta la storia dell’amicizia tra un ragazzino cresciuto nella gioventù hitleriana e una giovane ebrea rifugiatasi nella soffitta di casa sua, nel corso della seconda guerra mondiale, e decide di trasporlo.
La realizzazione del film è lunga e laboriosa: Waititi, deciso a fare i conti con il personaggio di Hitler, lo fa comparire nel plot sotto forma dell’amico immaginario di Jojo (uno degli espedienti più azzeccati a livello narrativo) e aggiunge anche delle scene comiche che – giocate sul filo dell’ambiguità – conferiscono un tono grottesco, tra commedia e tragica farsa, all’insieme.
Per caratterizzare il Führer anche a livello fisico, i produttori richiedono l’utilizzo di un attore di grido e da questa presenza fanno dipendere il finanziamento del lavoro. Ma Waititi la pensa diversamente: «Credo che se George Clooney avesse interpretato Hitler tutti avrebbero parlato solo di questo, distraendo l’attenzione dal messaggio vero e proprio del film e dalla storia dell’amicizia tra due ragazzi dalle ideologie così diverse».
Così, dopo gli ultimi successi (tra cui la serie televisiva Vita da vampiro – What We Do In The Shadows) al regista viene attribuita fiducia sufficiente ad interpretare lui stesso il ruolo del dittatoriale e stravagante amico immaginario: non l’Hitler reale, ma l’immagine che proietta dentro di sé un bambino di dieci anni che cresce in tempo di guerra lontano dal padre, infarcito suo malgrado – e nonostante la tenera e intelligente vigilanza della madre Rosie (una Scarlett Johansson molto efficace, candidata all’Oscar per questa parte come miglior attrice non protagonista) – di propaganda nazista.
L’originalità del punto di vista che fa da filtro agli eventi nel film si coagula proprio intorno alla scelta di porre in evidenza la ferocia e le aberrazioni prospettiche delle teorie hitleriane sulla razza attraverso lo sguardo, dapprima corrotto poi via via più consapevole e maturo di un bambino già travolto insieme alla sua famiglia da una delle tragedie assolute della Storia.
Waititi sceglie l’alternanza tra un registro corrosivamente umoristico e uno molto più drammatico e amaro (che si succedono il più delle volte senza soluzione di continuità) per evidenziare l’assurdità di un regime e del suo apparato gerarchico (a partire dal capitano Klenzendorf, un personaggio più sfaccettato di quanto appaia e dalla sadica ed eccessiva Fraulein Rahm, istruttrice della Jungvolk, magistralmente interpretati rispettivamente da Sam Rockwell e Rebel Wilson), immersi nei colori saturi di una messinscena “pop” con cadenze da musical.
L’esito è spiazzante, tragicomico, atrocemente bello. L’Hitler dell’istrionico Waititi, fragile e gradasso, sempre più animato da un’infantile ed egoistico desiderio di approvazione che si accresce in parallelo al percorso di emancipazione di Jojo, è un capolavoro di arte della recitazione. Bravissimo, intenso e spontaneo anche il giovane Roman Griffin Davis, alla sua prima apparizione sul grande schermo nel ruolo di Jojo; di grande naturalezza l’interpretazione di Thomasin McKenzie nelle vesti dell’ebrea fuggiasca Elsa Korr.
La prospettiva rovesciata che costituisce l’intelaiatura di Jojo Rabbit funziona ed è di grande impatto intellettuale ed emotivo: il cielo capovolto entro il cui orizzonte vive il piccolo Jojio non può lasciare indifferenti e ci induce ad uscire dal cinema in bilico tra scoraggiamento e speranza, come nelle intenzioni di Taika Waititi: «La parte più cinica di me, con cui combatto spesso, cerca di dirmi che non impareremo mai. Ma il me ottimista continua a ricordarmi che dobbiamo insistere in questa impresa, creando arte, continuando a insegnarci a vicenda la lezione e raccontando storie come questa. Abbiamo il dovere di fare del nostro meglio per crescere le prossime generazioni facendo capire loro quanto i concetti di pace, tolleranza e comprensione siano fondamentali per un futuro migliore».
Jojo Rabbit
Regia: Taika Waititi, dal romanzo Il cielo in gabbia di Christine Leunens
Origine: Nuova Zelanda, Usa, Repubblica Ceca, 2019, 108’
Cast: Roman Griffin Davis, Thomasin McKenzie, Scarlett Johansson, Sam Rockwell
Sceneggiatura: Taika Waititi
Fotografia: Mihai Malaimare Jr.
Musiche: Michael Giacchino
Montaggio: Tom Eagles, Yana Gorskaya
Scenografia: Ra Vincent
Costumi: Mayes C. Rubeo
Produzione: Czech Anglo Productions, Piki Films, Defender Films, Fox Searchlight Pictures
Distribuzione: 20th Century Fox