Le piccole donne coraggiose di Greta Gerwig
Ampio spazio e risalto ai personaggi di Jo e Amy, ai loro veri e presunti talenti artistici, al romanzo di formazione che viene innescato dal loro agire per la propria autorealizzazione sul piano professionale
CINEMA – C’è una doppia identificazione, alla base della trasposizione cinematografica della regista Greta Gerwig (la quarta, dopo la versione del 1933 per la regia di George Cukor, con la magistrale e indomita Katharine Hepburn nel ruolo di Jo, quella del 1949 di Mervyn LeRoy, con Elizabeth Taylor nei panni dell’immatura e leziosa Amy, e la penultima, firmata nel 1994 da Gillian Armstrong) dei romanzi di Louisa May Alcott Piccole donne, Piccole donne crescono, Piccoli uomini, I ragazzi di Jo, pubblicati tra il 1868 e il 1886.
Lo racconta la stessa Gerwig (vincitrice di un Golden Globe nel 2017 e candidata a due premi Oscar con Lady Bird) durante la conferenza stampa londinese per la presentazione del suo ultimo film: «Quando ho saputo che Hollywood era interessata a fare un nuovo Piccole donne, mi sono buttata a capofitto. Ho sempre avuto un’idea ben chiara di ciò di cui il libro parlava. Delle donne come artiste e del loro rapporto con il denaro. È tutto lì, nel libro di Louisa May Alcott. Ma i film precedenti lo avevano messo da parte. Per quel che mi riguarda, è il film più autobiografico che abbia mai fatto. […] Quello che ho trovato affascinante nel riproporre questo film in questo momento è che ho amato per tutta la vita la storia di Jo March: è sempre stato il mio romanzo preferito, era il libro che mia madre mi leggeva sempre prima di farmi addormentare. È stato il racconto che mi ha fatto realizzare che sarei potuta diventare una scrittrice, perché appunto il personaggio di Jo era così ambizioso, era capace di sognare cose grandiose, al di là di tutti i limiti che poteva avere intorno. Questa storia è stata sempre dentro di me, ma ovviamente raccontarla sul grande schermo ha richiesto uno step successivo, sia come regista sia come sceneggiatrice».
La proiezione del carattere e della personalità della Gerwig nella figura di Jo (qui interpretata, fra l’altro, da una Saoirse Ronan che sa conferirle la giusta dose di temperamento – al pari della Hepburn nella lontana, prima riduzione cinematografica della storia – con, in aggiunta, un’inedita fragilità che la rende più autentica) va di pari passo – dunque – con l’eguale immedesimazione messa in opera dalla Alcott nei suoi libri, dove il processo di affrancamento della grintosa aspirante scrittrice dalle strettoie e convenzioni di un mondo maschile è quello sperimentato sulla propria pelle dall’autrice stessa, nata e cresciuta in una famiglia dalle idee liberali, il padre filosofo – amico, tra gli altri, dello scrittore Henry David Thoreau – la madre femminista ante-litteram.
La versione di Piccole donne della Gerwig procede in questa direzione, attribuendo ampio spazio e risalto ai personaggi di Jo e Amy (la minore, la più velleitaria e capricciosa delle quattro sorelle March, cui presta volto e corpo Florence Pugh, già protagonista di rilievo in Lady Macbeth di William Oldroyd e Midsommar di Ari Aster), ai loro veri e presunti talenti artistici, al romanzo di formazione che viene innescato dal loro agire per la propria autorealizzazione sul piano professionale. «Sono orgogliosa perché per la prima volta le abbiamo reso giustizia», spiega la regista a proposito della piccola di casa March. «Amy non è solo la sorella smorfiosa e traditrice degli altri film. Ma una donna che non vuole solo essere un artista dilettante. È sua la frase che amo di più: “Voglio essere grande o niente!”».
La Amy della Pugh è una figura femminile molto più definita, ritratta a tutto tondo non solo nella sua innata umoralità, ma anche – a fare da contrappeso – nella solidità della sua aspirazione alla bellezza e alla pratica dell’arte, anche dopo la presa di coscienza dei limiti del suo talento.
Le altre due sorelle, Meg (Emma Watson) e Beth (Eliza Scanlen), pur messe in scena con grande bravura dalle rispettive interpreti, hanno minor peso narrativo rispetto a Jo ed Emy, perché votate a due differenti destini: il primo convenzionale – quello di moglie e madre – a detrimento delle ambizioni teatrali; il secondo tragicamente fatale, a tarpare le ali anzitempo a doti musicali ancora in nuce.
Anche le altre figure di rilievo della storia sono molto ben caratterizzate e rese vivaci da un ottimo cast di attori, dalla spiccata personalità e presenza scenica: dalla Marmee di Laura Dern alla Zia March di Meryl Streep, per arrivare al fin troppo affascinante professor Bhaer incarnato da Louis Garrel e all’efebico Laurie di Timothée Chalamet, che sottolinea anche fisicamente i tratti adolescenziali del suo personaggio.
Il racconto non è linearmente cronologico, come nei romanzi della Alcott: Greta Gerwig preferisce iniziare in medias res, con i ricordi di una Jo ormai pienamente a suo agio nella vita adulta, che fruga tra le pieghe della memoria – in un continuo andirivieni temporale – per ritrovarvi i volti amati di un tempo e il senso del vivere e del crescere.
La fotografia di Yorick Le Saux a tratti calda e sognante, nel recupero del passato, a tratti più nitida e algida, quando a prevalere è la forza realistica del presente.
L’adattamento della Gerwig convince pienamente, riuscendo ad appassionare al mondo delle “piccole donne” sia chi le ha conosciute nell’adolescenza attraverso i romanzi di Louisa May Alcott, sia chi viene a contatto per la prima volta con il travagliato cammino di maturazione, di riscatto del femminile così efficacemente evocato dalle quattro sorelle.
Piccole donne (Little Women)
Regia: Greta Gerwig
Origine: Usa, 2019, 135′
Sceneggiatura: Greta Gerwig dal romanzo di Louisa May Alcott
Fotografia: Yorick Le Saux
Montaggio: Nick Houy
Musica: Alexandre Desplat
Cast: Tracy Letts, Timothée Chalamet, Saoirse Ronan, Meryl Streep, Louis Garrel, Laura Dern, James Norton, Florence Pugh, Emma Watson, Eliza Scanlen, Chris Cooper, Bob Odenkirk, Abby Quinn
Produzione: Columbia Pictures
Distribuzione: Sony Pictures, Warner Bros. Entertainment Italia