Da Doppio sogno a Eyes Wide Shut: il doppio labirinto
Destituita la città di tutto il suo potere fantasmagorico, Kubrick rimette al centro della vita delluomo il cuore di tenebra, o di luce, che è irraggiungibile ed eternamente presente: per vedere bene bisogna chiudere gli occhi, come diceva Kafka a Janouch
?Destituita la città di tutto il suo potere fantasmagorico, Kubrick rimette al centro della vita dell?uomo il cuore di tenebra, o di luce, che è irraggiungibile ed eternamente presente: per vedere bene bisogna chiudere gli occhi, come diceva Kafka a Janouch?
Finalmente, dopo svariate vicissitudini e trattative con le case di produzione americane, a dodici anni di distanza dal suo ultimo lavoro, Kubrick realizzò una pellicola che richiese al suo sceneggiatore ben due anni per la sola stesura del soggetto. Sempre secondo Raphael, le difficoltà maggiori incontrate durante l’elaborazione della sceneggiatura si coagularono proprio intorno al perfezionismo maniacale del regista, il cui motto era “seguire Arthur”.
Kubrick, che nell’arco della sua carriera aveva sempre avuto modo di misurarsi con i problemi legati all’adattamento cinematografico (essendo la maggior parte delle sue opere di derivazione letteraria), decise per l’ultimo film di rimanere particolarmente fedele alla fonte, l’ambigua novella schnitzleriana del 1926 incentrata sugli smarrimenti paralleli di una coppia borghese nella Vienna d’inizio secolo.
Schnitzler e Kubrick – il grande letterato e il geniale regista – avevano sicuramente molto in comune: fra le altre cose, le origini ebraiche e il comune interesse verso la psicoanalisi (di matrice freudiana nel primo, junghiana nel secondo), fattore, quest’ultimo, che spinse entrambi nelle loro opere ad addentrarsi in quelle remote regioni della psiche troppo spesso trascurate o dimenticate: il “semiconscio” o “medioconscio”, come lo chiamava Schnitzler.
L’autore viennese amava, però, il racconto: Kubrick, invece – come ricorda Frederic Raphael in Eyes Wide Open (edito da Einaudi nel 1999) – “voleva mostrare, non raccontare. Preferiva lasciare allo spettatore il compito di indovinare le motivazioni e la ‘psicologia’. Non era mai esplicito su quello che “voleva dire”. L’ambiguità lo lasciava libero e privo di responsabilità”.
Kubrick amava portare il proprio spettatore al cuore delle cose: in lui è rintracciabile una vera e propria teoria dell’occhio, con tutte le problematiche sui limiti della visibilità cinematografica e sul ruolo spettatoriale ad essa collegati.
Mentre Schnitzler, dunque, da narratore onnisciente, impone al lettore il rigore di una visione “oggettiva”, Kubrick ribalta le regole dei generi in modo da permettere allo spettatore di attraversare lo specchio, come l’Alice del libro di Lewis Carroll e la sua omonima in Eyes Wide Shut (molto eloquenti si confermano – a questo proposito – nel film, il microscopico spostamento dello sguardo della seconda Alice proprio lungo la superficie dello specchio stesso, e la posizione della macchina da presa durante la lunga scena della discussione in camera da letto).
Ribadite alcune, comunque marginali differenze tra il testo di Schnitzler e il film di Kubrick, del resto inevitabili in ogni adattamento e, per altro, risolte sul piano narrativo (pensiamo, ad esempio, alla diversa caratterizzazione fisica di Nick Nigtingale, l’amico di Bill in EWS, rispetto al Nachtigall della novella; all’ambientazione, invernale nel film e quasi primaverile nel racconto; all’introduzione in EWS del personaggio di Ziegler, assente da Doppio sogno, con evidente quanto discussa funzione chiarificatrice), si possono rintracciare con certezza nelle due opere più analogie che differenze.
In effetti, ad un esame più attento, anche quelle che appaiono come delle diversificazioni abbastanza fondate tra la pellicola e la novella (l’opposizione tra la New York schnitzleriana e la Vienna kubrickiana; la scena dell’orgia, in EWS più distesa e ricca di particolari, di grottesche quanto ambigue “appendici”; il finale aperto del film, con quella fulminante battuta finale di Alice, solo fintamente innocente e, senza dubbio, assai meno consolatoria della conclusione del racconto di Schnitzler), si rivelano semplici distonie dovute alla perenne sovrapposizione di due universi paralleli i cui labirinti si intrecciano e si confondono senza sosta, e i cui bordi sfilacciati sono condotti in via estrema a combaciare.
Il film, dunque, riflette la novella, che, a sua volta, pare rimbalzare sulla sua superficie: su antiche ma ancora solide radici, Kubrick innesta e offre libero sfogo alle proprie magnifiche ossessioni.
Nel collegamento tra la New York contemporanea e la Vienna schnitzleriana il riferimento non è solo alla crisi del Novecento: il definitivo trait-d’union fra Kubrick e Schnitzler consiste nella comune visione dell’esistenza, all’insegna dell’assurdo, del dramma e di un’acutissima mancanza di senso.
Come sostiene lo studioso Sandro Bernardi (in Kubrick e il cinema come arte del visibile, Il Castoro, 2000): “Destituita la città di tutto il suo potere fantasmagorico, Kubrick rimette al centro della vita dell’uomo il cuore di tenebra, o di luce, che è irraggiungibile ed eternamente presente: per vedere bene bisogna chiudere gli occhi, come diceva Kafka a Janouch”.