Van Gogh – Sulla soglia dell’eternità
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Barbara Rossi - redazione@alessandrianews.it  
5 Gennaio 2019
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Van Gogh – Sulla soglia dell’eternità

La pellicola, presentata in anteprima alla recente Mostra del Cinema di Venezia, premiata con la Coppa Volpi per la miglior interpretazione maschile e con una candidatura per il miglior attore in un film drammatico al superlativo Willem Dafoe, dall’espressività fuori del comune, non si configura come una biografia convenzionale, ma presenta, sia a livello estetico che narrativo, numerosi spunti di originalità

La pellicola, presentata in anteprima alla recente Mostra del Cinema di Venezia, premiata con la Coppa Volpi per la miglior interpretazione maschile e con una candidatura per il miglior attore in un film drammatico al superlativo Willem Dafoe, dall?espressività fuori del comune, non si configura come una biografia convenzionale, ma presenta, sia a livello estetico che narrativo, numerosi spunti di originalità

CINEMA – “Questo film non è una biografia, ma la mia versione della storia. È un film sulla pittura e un pittore e la loro relazione”: è rigoroso, Julian Schnabel, ed estremamente puntiglioso mentre racconta il suo ultimo lavoro, Van Gogh – Sulla soglia dell’eternità, dedicato alla figura del genio olandese della pittura, nato a Zundert nel 1853 e morto – ufficialmente suicida, secondo altre ipotesi in circostanze quanto meno misteriose, cui si fa cenno nel film – ad Auvers-sur-Oise nel 1890.

In effetti la pellicola – presentata in anteprima alla recente Mostra del Cinema di Venezia, premiata con la Coppa Volpi per la miglior interpretazione maschile e con una candidatura per il miglior attore in un film drammatico al superlativo Willem Dafoe, dall’espressività fuori del comune (costretto dal regista a imparare a dipingere, per rendere con realismo sullo schermo i moti interni di Van Gogh nell’atto creativo) – non si configura come una biografia convenzionale, ma presenta, sia a livello estetico che narrativo, numerosi spunti di originalità.

L’approccio è quasi inevitabile, visto il coté del regista, a sua volta pittore e già autore, nel 1996, di Basquiat , un altro film biografico su Jean-Michel Basquiat, uno dei più prestigiosi esponenti del graffitismo americano: a Schnabel interessa poco la cronaca esaustiva dei fatti, la lineare cronologia degli eventi, e invece moltissimo la resa del tempo e della dimensione interiore di un artista eccezionale, al di fuori di qualunque schema e collocazione in un alveo ben preciso.

“Tutto quello che volevo dire sulla pittura, l’ho detto in questo film e molte cose le ho dette per voce di Van Gogh, tenendo conto che ognuno di noi ha la sua personale visione di quest’artista. Van Gogh, come si legge nelle sue lettere, era lucido, consapevole del suo valore e forse, come si vede in uno dei tanti dialoghi del film, s’identificava davvero in Gesù. Ma ci tenevo anche molto a rappresentare la sua paura di impazzire, di essere sempre ai confini della sanità mentale”, spiega Schnabel, che nella sua opera presta minore attenzione agli episodi più conosciuti dell’esistenza del pittore: il trasferimento dalla grigia Parigi ad Arles, in Provenza, per godere del favore della luce naturale tipica del sud della Francia; l’amicizia complicata e turbolenta con l’altrettanto geniale Paul Gauguin (cui presta l’intenso volto Oscar Isaac), professante un modello di pittura “interiore” diametralmente opposto rispetto quello di Vincent, che attingeva al dato reale; il taglio dell’orecchio come conseguenza della repentina partenza dell’amico, che pose fine alla loro convivenza artistica nella casa gialla di Place Lamartine ad Arles. E poi il ricovero nell’ospedale psichiatrico di Saint-Rémy, la “follia” incipiente (che – dal punto di vista di Schnabel e dello sceneggiatore-scrittore Jean-Claude Carrière – era la maniera in cui si esprimeva, con tratti spesso estremi, furenti e paradossali, l’esasperata sensibilità del genio), la solitudine dell’incompreso, del vagabondo sbeffeggiato e deriso, temuto e odiato, a tal punto da contemplare la possibilità di ucciderlo (come sostengono gli storici dell’arte Steven Naifeh e Gregory White Smith, nella biografia “Van Gogh: The Life”, 2011).

Sopra tutte le bassezze e le miserie malvagie del mondo, a unificare gli attimi e i momenti più eterogenei, il rapporto affettuoso ma distante con il fratello Theo, nume tutelare, confidente, mecenate, e poi gli incontri fuggevoli: quello con madame Ginoux – interpretata con severa e matura grazia da Emmanuelle Seigner – locandiera ad Arles, che gli offre un libro contabile con le pagine bianche, poi affollate da Van Gogh di schizzi, perduti e ritrovati soltanto nel vicino 2016; quello con l’ex militare ospite dell’istituto psichiatrico, cui il pittore confessa di dipingere “la luce”; e, infine, quello con il prete con cui discorre sulla figura di Gesù Cristo, che sente a sé affine.

Situazioni non trascurabili, queste, del tribolato percorso di vita e arte di Vincent: ma di fatto soverchiate, nella personale visione di Schnabel, dal canto di sirena dell’universo, che risuona sempre più alto, fragoroso, nell’intelletto e nei sensi del pittore, annichilendolo con la sua sovrumana bellezza.

Allora valgono più gli sguardi, i rapimenti estatici, le esaltazioni creative che spingono Van Gogh a rotolarsi fra le zolle di terra rossastra dei campi di Arles, ad assaggiarla, ad ubriacarsi del vento incessante che piega ed ondeggia le cime degli alberi, che sbatte imposte e finestre e poi si placa nella luce abbacinante del pomeriggio estivo, nel blu profondo della sera.

Valgono i passi frettolosi, i movimenti sconnessi, la comunione laica che unisce Vincent al creato e che Schnabel racconta come fosse un quadro astratto, un dipinto nel dipinto, tramite l’uso continuo (alla lunga disturbante) della camera a mano, di messe in quadro laterali, capovolte, di primi e primissimi piani, movimenti di macchina vorticosi, sfocature, sovrimpressioni, controluce.

Lo schermo nero, in apertura e in chiusura, la voce fuori campo di Van Gogh, il tappeto musicale, greve e ridondante, fanno da contraltare – elementi di un compiaciuto estetismo – alle soggettive esasperate che riflettono il tumulto spirituale di un artista che dichiara di essere i suoi quadri, di dipingere per non pensare e a favore di chi non è ancora nato, di provare gioia nella malattia e nella tristezza.

“Quando mi trovo di fronte a una vasta pianura non vedo altro che l’eternità. Sono l’unico a vederla?”.

At Eternity’s Gate
Julian Schnabel, Usa, Francia, 2018, 110′
Sceneggiatura: Jean-Claude Carrière, Julian Schnabel
Fotografia: Benoît Delhomme
Montaggio: Louise Kugelberg, Julian Schnabel
Musica: Tatiana Lisovkaia

Cast: Willem Dafoe, Oscar Isaac, Mads Mikkelsen, Rupert Friend, Mathieu Amalric, Niels Arestrup, Stella Schnabel, Patrick Chesnais

Produzione: Iconoclast, Riverstone Pictures, SPK Pictures
Distribuzione: Lucky Red

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