Roma
Leone d'Oro, Roma (quartiere di Città del Messico) di Alfonso Cuaron è candidato all'Oscar tra i film non in lingua inglese. Il regista si è ispirato ai ricordi della tata di quando era piccolo, ma con la prospettiva di oggi, uomo adulto
Leone d'Oro, Roma (quartiere di Città del Messico) di Alfonso Cuaron è candidato all'Oscar tra i film non in lingua inglese. Il regista si è ispirato ai ricordi della tata di quando era piccolo, ma con la prospettiva di oggi, uomo adulto
Tutte facenti parte di quel gineceo reale e, nello stesso tempo, ideale che ha forgiato il carattere e l’immaginario del regista messicano, classe 1961, già conosciuto e apprezzato a livello internazionale per Y tu mamá también (2001), I figli degli uomini (2006) e Gravity, pellicola con la quale rielabora il genere di fantascienza, vincendo – primo cineasta del proprio paese – l’Oscar per la miglior regia ed altre sei statuette.
“Il mio film è il più autobiografico possibile, diciamo che l’ottanta, novanta per cento di quello che vediamo viene dalla mia memoria e dalla storia del personaggio vero che ha ispirato Cleo, la tata che per me era come una mamma – confessa Cuarón – quando cresci con qualcuno che ami, non metti in discussione la sua identità. Ora da adulto ho cercato di vedere Cleo come una donna di origini indigene, appartenente alla classe operaia, allora era solo lei. Mi interessava instaurare questo dialogo della memoria, visitare quest’epoca di tanto tempo fa ma con la prospettiva di oggi. Il set era la ricostruzione identica della mia casa di bambino, il settanta per cento dei mobili sono quelli della mia famiglia, provenienti da tutto il Messico. Abbiamo girato nella strada della mia infanzia e nel ranch dove andavo da ragazzo. […] Se questo film è venuto bene è grazie a queste donne, sono state eroiche, hanno lavorato senza sceneggiatura spesso reagendo a cose che io dicevo di fare ai bambini, al resto del gruppo”.
Il riferimento del regista non è soltanto alle figure femminili che hanno popolato la sua infanzia, ma anche a quelle che hanno prestato loro corpo, voce e temperamento, prima fra tutte Yalitza Aparicio, una splendida attrice non professionista nel mirabile ruolo di Cleo Gutiérrez, e poi anche Marina de Tavira che interpreta Sofia, chimica e madre di quattro figli, moglie abbandonata ma indomita del medico Antonio (Fernando Grediaga), che ogni tanto – distrattamente, di ritorno da qualche viaggio di lavoro, qualche avventura del cuore – fa il suo maldestro ingresso nel cortile domestico alla guida di una Ford Galaxy fuori misura, schiacciando sotto le ruote gli escrementi del cane di casa.
L’operazione memoriale compiuta da Cuarón ricorda da vicino quella messa in atto e in campo da Edgar Reitz, uno dei principali fautori ed esponenti della Neue Welle (la Nuova Onda) del cinema tedesco che – nei primi anni Sessanta, analogamente alla Nouvelle Vague francese – ricercò un radicale distacco dal cosiddetto ‘cinema di papà’, ovvero quello retorico e paternalistico del periodo immediatamente precedente.
Nella sua opera più nota al grande pubblico, Heimat (1984) – suddivisa in undici episodi per una fruizione televisiva e parte iniziale di una saga familiare dai contorni epici ed autobiografici, in tre cicli – Reitz ricostruisce sin nei minimi dettagli il laboratorio del padre orologiaio, sino a provare egli stesso, di fronte al risultato ottenuto, un moto di stupore.
Così Cuarón, espressione primaria del nuovo cinema messicano contemporaneo (insieme a Guillermo Del Toro e Alejandro Gonzalez Iñárritu), fa rivivere non solo nel suo ricordo ma anche di fronte allo sguardo dello spettatore la casa della propria infanzia, il quartiere borghese Colonia Roma a Città del Messico, persino la strada dove è cresciuto con il quotidiano caos, i rumori del traffico, l’incessante via vai di persone con le loro voci, gli accenti, le inflessioni, sullo sfondo dei conflitti e delle tensioni sociali di inizio anni Settanta (vedi la precisa e dettagliata ricostruzione del massacro del Corpus Christi, conosciuto anche come ‘El Halconazo’ dal nome del gruppo paramilitare di estrema destra che, il 10 giugno 1971, operò una vera e propria strage a scopo repressivo nei confronti delle proteste del movimento studentesco messicano).
“Il film parla della cicatrice personale che è stata quell’epoca per la mia famiglia ma anche la cicatrice sociale nella coscienza del mio paese”, sottolinea il regista a proposito di un’opera sospesa tra vocazione intimista e afflato sociale. […] “Per filmare il massacro del Corpus Christi abbiamo ricostruito il negozio di mobili da cui è stata vista quella scena, proprio dentro quell’edificio che oggi è una scuola”.
Il 1971 non è, infatti, solo l’anno della terribile strage studentesca a Città del Messico, che produce nell’intera nazione una ferita difficilmente rimarginabile, ma anche quello in cui il padre di Cuarón abbandona la famiglia e il piccolo Alfonso corre il rischio di affogare in mare durante le vacanze estive, venendo tratto in salvo dalla tata Cleo; è l’anno, parimenti, del colossale incendio che devasta i boschi della tenuta in cui la famiglia di Cuarón sta trascorrendo l’estate (nel film rappresentata a guisa di una miniatura bruegeliana).
Il regista racconta tutto questo con delicatezza d’animo e, insieme, rigore cronachistico ed estetico (così come il Reitz di Heimat), privilegiando i dettagli (gli oggetti domestici, i gesti minimi, le azioni quotidiane: vedi l’immagine d’apertura, la pozza d’acqua in cortile che riflette il volo di un aereo nel cielo), gli scorci prospettici (le asettiche geometrie degli interni e del cortile, la domus come utero e feritoia sul mondo: cui fa riferimento, con perfetto meccanismo circolare, la chiusa con vista del cielo stretto tra i terrazzi delle abitazioni, nel cui perimetro visivo passa, quasi immobile nella sua lentezza, un velivolo), con partecipazione e – nel contempo – distacco: quanto basta per mettere bene a fuoco – grazie al filtro del tempo – una vicenda privata che assurge al rango di narrazione universale.
In un bianco e nero luminoso (che fa per la prima volta a meno dei celebrati piani sequenza del fido direttore della fotografia Emmanuel Lubezki), nel ricordo del cinema neorealista che ha influenzato il suo stile (“Mi sono sforzato di non fare nessun riferimento al lavoro degli altri registi che amo, ma la verità è che il mio Dna è pieno del cinema dei fratelli Taviani, di Pasolini, di Rossellini. E di Fellini, naturalmente”), entro un formato digitale a 65 mm e tramite l’uso di carrelli, panoramiche, long take, controluce, Cuarón rende un omaggio commosso ma lucido al proprio universo femminile, laddove quello maschile è sempre un po’ irrisolto, distante, a tratti scopertamente insensibile e assente. Il medico-padre di famiglia Antonio e Fermin (Jorge Antonio Guerrero), il ragazzo appassionato di arti marziali da cui Cleo attende un figlio, sono – in questa prospettiva – figure emblematicamente evanescenti.
Roma, che rappresenterà il Messico agli Oscar 2019 nella categoria miglior film in lingua straniera, è anche la riprova che – come sosteneva André Bazin – il cinema è un’arte animata dal desiderio di fermare lo scorrere del tempo e che, in definitiva, di tutto il rappresentabile ciò che si impone con forza maggiore è il ricordo che ci suscita il sapore della madeleine immersa nel tè.
Sceneggiatura: Alfonso Cuarón
Fotografia: Alfonso Cuarón
Montaggio: Alfonso Cuarón, Adam Gough
Cast: Yalitza Aparicio, Veronica Garcia, Nancy Garcia, Marina de Tavira, Marco Graf, Jorge Antonio, Diego Cortina Autrey, Daniela Demesa, Carlos Peralta
Produzione: Participant Media, Esperanto Filmoj
Distribuzione:
Cineteca di Bologna, Netflix