Bernardo Bertolucci: “The Dreamer”
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Barbara Rossi - redazione@alessandrianews.it  
1 Dicembre 2018
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Bernardo Bertolucci: “The Dreamer”

Dalle radici contadine e parmensi il regista aveva istituito sin da ragazzo (e dalle prime opere giovanili) una sorta di naturale prossimità ma anche di salutare distanza, che gli rese possibile raccontare, negli anni, uomini e mondi distanti anni luce rispetto a quelli che avevano fatto da culla alla sua arte

Dalle radici contadine e parmensi il regista aveva istituito sin da ragazzo (e dalle prime opere giovanili) una sorta di naturale prossimità ma anche di salutare distanza, che gli rese possibile raccontare, negli anni, uomini e mondi distanti anni luce rispetto a quelli che avevano fatto da culla alla sua arte

CINEMA – In che modo si racconta un Maestro del cinema che ha da poco lasciato la vita come noi la conosciamo e come lui stesso l’ha raccontata, terra sanguigna e aspra, orizzonti e cieli lontani? Forse iniziando proprio da qui, dalle radici contadine e parmensi di Bernardo Bertolucci, con le quali il regista – scomparso il 26 novembre scorso, all’età di settantasette anni – aveva istituito sin da ragazzo (e dalle prime opere giovanili) una sorta di naturale prossimità ma anche di salutare distanza, che gli rese possibile raccontare, negli anni, uomini e mondi distanti anni luce rispetto a quelli che avevano fatto da culla alla sua arte.

L’anno passato – in occasione della proiezione alla Mostra del Cinema di Venezia del documentario di Stefano Consiglio Evviva Giuseppe a ricordo del fratello cineasta e, in parallelo, di Novecento restaurato – Bernardo aveva rievocato con grande tenerezza il loro rapporto professionale e amicale (la presenza di Giuseppe come aiuto sul set de La strategia del ragno, nel 1969, per curare una delusione amorosa; la sua versatilità – aveva praticato la pittura, la poesia, il cinema, quest’ultimo sia come autore che da presidente della Cineteca di Bologna, per cui aveva curato la conservazione di innumerevoli pellicole – ; il lavoro comune sulla sceneggiatura di Novecento), l’influenza esercitata su entrambi dal padre Attilio, fra i massimi poeti del secolo scorso. “Ci sentivamo proprio come i due rami di un albero, il suo albero”, sottolineava Bertolucci. “Sì, eravamo talmente figli, lo eravamo stati tanto a lungo, che è stato impossibile, per tutti e due, riuscire ad accettare di diventare padri. Mio padre ci ha fatto sentire fin troppo sotto la cupola paterna. […] È chiaro che ne siamo usciti nella quotidianità, ma quella sensazione di infinito Eden è rimasta sempre”.

Bernardo aveva intrapreso il suo cammino nel cinema come assistente di Pier Paolo Pasolini, per Accattone (1961): l’esperienza gli era servita, ma – dopo La commare secca (1962), film d’esordio su soggetto e sceneggiatura dello scrittore friulano – i suoi interessi e curiosità intellettuali si erano ben presto trasferiti dalla dimensione del sottoproletariato ad altri universi, altrettanto complessi e sfaccettati, da indagare e filtrare attraverso lo sguardo della macchina da presa: da Prima della rivoluzione (1964) a Strategia del ragno e Il conformista (entrambi del 1970, quest’ultimo – dall’omonimo romanzo di Alberto Moravia – con lo straordinario terzetto attoriale costituito da Jean-Louis Trintignant, Stefania Sandrelli e Dominique Sanda) l’attenzione di Bertolucci si era concentrata sulla rappresentazione acuta e impietosa della realtà italiana contemporanea, attraversata da contraddizioni politiche e sociali, tra echi di un passato mai del tutto risolto e spinte utopistico-rivoluzionarie spesso velleitarie.

In quegli anni, tra l’altro, Bernardo aveva scoperto anche la forza dirompente dell’estetica della Nouvelle Vague e, nello specifico, dei film di Godard (Fino all’ultimo respiro in primis), del quale – a distanza di anni – volle ribadire ufficialmente l’indiscusso status di Maestro del cinema mondiale, quasi “imponendo”, in qualità di presidente della giuria del Festival di Venezia del 1983, l’attribuzione del Leone d’Oro al film Prénom Carmen (come ebbe modo di raccontare in dettaglio al critico Alberto Crespi, in un’intervista per “L’Unità”).

Se le prime opere furono scarsamente apprezzate dal pubblico, il successo e la fama internazionali arrivarono con una pellicola giudicata, all’epoca (e non solo, a giudicare dal vespaio di polemiche, recriminazioni e post-interpretazioni sollevatosi nei giorni scorsi sul web a proposito della stra-citata scena erotica con il burro), eccessiva e “scandalosa”: Ultimo tango a Parigi fu un film epocale, un punto di non ritorno sia per il regista, che venne condannato e privato per cinque anni dei diritti civili per offesa al comune senso del pudore, sia per gli interpreti, la diciannovenne Maria Schneider in particolar modo, che – a suo dire – non riuscì mai del tutto a superare le conseguenze psicologiche di quel seppur fittizio rapporto sessuale violento imposto dal copione e rifinito nei dettagli da Marlon Brando, all’epoca già divo affermato (anzi, in rapido e progressivo declino, come il personaggio senza nome da lui incarnato).

Il film, sottoposto a censura in Italia, venne ritirato dalla circolazione ed è stato riproposto su grande schermo nel maggio dello scorso anno, in versione restaurata e approvata da Bertolucci.

Dopo Ultimo tango a Parigi venne il grande affresco sociale di Novecento (1976, seguito da La luna, 1979, e La tragedia di un uomo ridicolo (1981) con cui il regista, insieme a un cast internazionale (Robert De Niro, Gérard Depardieu, Burt Lancaster, Donald Sutherland, ancora Dominique Sanda e Stefania Sandrelli), ritornò alle atmosfere della propria terra, a tratti in un’accezione olmiana, con quelle larghe panoramiche e inquadrature d’insieme che hanno reso riconoscibile il suo stile negli anni, ogni volta che decise di raccontare passaggi storici epocali o enormi spazi, civiltà colossali in disfacimento; come per la Cina de L’ultimo imperatore (1987, vincitore di nove Oscar: Bertolucci venne consacrato così l’unico regista italiano, oltre all’italo-americano Frank Capra, ad aver vinto il premio) e l’India antica di Piccolo Buddha (1993).

L’incredibilmente vicino e l’incommensurabilmente lontano: tra questi due poli ha continuato ad oscillare in moto perpetuo il cinema di Bernardo Bertolucci, come se il vedere con chiarezza – gli uomini, le idee, la storia – dipendesse principalmente da questo movimento altalenante. Ed ecco, allora, l’Emilia di Novecento, le lotte contadine per l’emancipazione dalla servitù padronale: “Novecento è un melodramma, l’affresco di un secolo trascorso, la rivoluzione contadina nelle terre in cui sono cresciuto, la grande utopia – ricordava non molto tempo fa il regista – Ma testimonia anche il periodo in cui è stato girato: gli anni Settanta, Berlinguer, il compromesso storico e quella gigantesca bandiera rossa che ho sognato di portare in America. Ecco, vorrei che i ragazzi guardassero al film anche da questo punto di vista”.

Ed ecco, invece, nel 1990, un film come Il tè nel deserto – dall’omonima opera letteraria di Paul Bowles – romanzo di formazione, odissea tragica nei sentimenti e nelle passioni ambientata dentro gli spazi sconfinati del deserto sahariano, dove diviene palese la differenza tra turisti e viaggiatori, e lo smarrimento assurge a simbolo della condizione umana.

In anni più recenti Bernardo-Ulisse, instancabile e curioso esploratore di tutto ciò che appartiene all’esperienza umana, è ritornato idealmente a casa, a temi più intimisti e privati, pur con forti suggestioni letterarie: da Io ballo da sola (1996), film immerso nelle luci ed ombre della campagna toscana, attraverso L’assedio (1998) e The Dreamers-I sognatori (2003, dal racconto di Gilbert Adair The Holy Innocents), esplicito omaggio all’utopia rivoluzionaria sessantottina come alla cultura – soprattutto cinematografica – di quel periodo, sino al conclusivo Io e te (2012), specchio e apertura sul mondo giovanile dal romanzo di Niccolò Ammaniti.

Era un sognatore, il Maestro Bertolucci: alla stregua di Matthew, Isabelle e Théo, i tre amici protagonisti di The Dreamers, con la medesima carica eversiva e l’afflato verso i vagabondaggi del cuore e del pensiero: forse, anche con un pizzico di stupito dolore, come già registrava suo padre Attilio nella lirica Bernardo a cinque anni (contenuta nella raccolta La capanna indiana, 1955):  

Il dolore è nel tuo occhio timido
nella mano infantile che saluta senza grazia,
il dolore dei giorni che verranno
già pesa sulla tua ossatura fragile.

In un giorno d’autunno che dipana
quieto i suoi fili di nebbia nel sole
il gioco s’è fermato all’improvviso,
ti ha lasciato solo dove la strada finisce

splendida per tante foglie a terra
in una notte, sì che a tutti qui
è venuto un pensiero nella mente
della stagione che s’accosta rapida.

Tu hai salutato con un cenno debole
e un sorriso patito, sei rimasto
ombra nell’ombra un attimo, ora corri
a rifugiarti nella nostra ansia.

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