Michelangelo – Infinito
Il film-documentario di Emanuele Imbucci riesce a dispiegare allo sguardo meravigliato e attonito dello spettatore, alla maniera dei grandi exempla medievali, la bellezza terribile, perché sconvolgente e insieme maestosa, delle opere del genio toscano
Il film-documentario di Emanuele Imbucci riesce a dispiegare allo sguardo meravigliato e attonito dello spettatore, alla maniera dei grandi exempla medievali, la bellezza terribile, perché sconvolgente e insieme maestosa, delle opere del genio toscano
“Quello che abbiamo cercato di fare è di portare sul grande schermo un nuovo genere cinematografico – spiega Cosetta Lagani, responsabile e direttore artistico di Cinema d’Arte Sky – Un percorso iniziato cinque anni fa: Michelangelo – Infinito è il nostro sesto film. Tutto nasce dalla profonda convinzione che il cinema e le tecnologie più evolute utilizzate al servizio del racconto dell’arte possano essere finalizzate a un racconto del nostro patrimonio artistico-culturale diverso, di forte impatto emotivo, coinvolgente, dando allo stesso tempo un’esperienza cognitiva autorevole, e divulgando la cultura del bello”.
Il film, come gli altri del ciclo, propone un’inedita modalità di fruizione dell’opera d’arte e del racconto della figura dell’artista, non solo per il rigore filologico delle fonti controllate da Vincenzo Farinella, storico dell’arte rinascimentale (nel caso di questo Michelangelo le “Lettere e Rime”, oltre un centinaio, redatte dallo stesso scultore, e “Le vite de’ più eccellenti pittori, scultori e architetti italiani” di Giorgio Vasari, pittore, architetto, storiografo cinquecentesco interpretato con raffinata eleganza e partecipazione emotiva dall’attore Ivano Marescotti), ma anche per le tecniche tridimensionali di ripresa e post-produzione, che favoriscono un’esperienza visiva integrale, ravvicinata, panoramica di sculture e dipinti.
Basti pensare che, per soddisfare la funzione documentaristica del film, è stata ricostruita sulla base della documentazione dell’epoca la Cappella Sistina quattrocentesca, così come la vide per la prima volta Michelangelo nel marzo del 1508, appena giunto a Roma, con il compito – attribuitogli da Papa Giulio II – di affrescarne la Volta.
Parallelamente il giovane regista Emanuele Imbucci ha compiuto diversi sopralluoghi a Carrara, città in cui il Buonarroti soggiornò spesso e a lungo, per scegliere i marmi pregiati da cui ricavare le sue figure monumentali (un vero e proprio lavoro di scavo, di sottrazione alla materia grezza del superfluo, sino ad arrivare all’essenzialità della forma definitiva): “Ho fatto un primo sopralluogo nelle Cave di Marmo di Carrara per vedere quali fossero le riprese esterne da realizzare per una ricostruzione storica, e sono entrato nella cava dalla quale Michelangelo aveva ricevuto il marmo per la Pietà: sono rimasto senza parole per l’imponenza di questo spettacolo della natura, questa montagna che ti accoglie e che ti sovrasta. Ho pensato che un solo uomo aveva sfidato questa montagna e aveva pensato di realizzare qualcosa di eterno. Camminando per la cava, a un certo punto ho notato una pozzanghera, uno specchio d’acqua naturale che nasceva dal respiro e dal sudore della montagna. In questa pozzanghera si rifletteva un blocco di marmo, e ho pensato che ognuno di noi ci avrebbe visto solo un blocco di pietra, mentre Michelangelo probabilmente in questo riflesso avrebbe visto il David. Lui pensava che nel marmo fosse già presente la forma, che andava solo tirata fuori. Nel frattempo, da questa suggestione e da questa ossessione di Michelangelo, è nata l’idea del suo limbo: questo set naturale, non facile, perché ogni elemento di scenografia pesava dalle dieci alle venti tonnellate”.
La pellicola, si dipana, così, a metà strada fra il cinema didattico di matrice rosselliniana e la docu-fiction, a livello narrativo raccontando – per mezzo dei sapienti flashback, dell’uso della voice over e di due personaggi in scena, Michelangelo e Vasari – una vita dedicata all’arte, marchiata a fuoco dall’ossessione di dominare la materia con un movimento contrario a quello opprimente di chi intende plasmare a forza la natura: un movimento semplice, che si riduce al sottrarre ai corpi, agli spazi, tutto ciò che è superfluo.
Dalla nascita, il 6 marzo 1475, sino agli ultimi anni di vita, seguiamo l’evoluzione e la crescita del genio michelangiolesco, la sua alterità rispetto ai discepoli del medesimo cenacolo artistico, facente capo a Bertoldo, collaboratore di Donatello, i continui viaggi e spostamenti tra le grandi città italiane espressioni del potere temporale e religioso – Firenze e Roma – le committenze tormentate, l’esaltazione, l’ambizione, la fatica immane e lo sforzo dell’artista nel cavare dal marmo, dall’impasto materico e fumante delle polveri colorate qualcosa che trascenda l’umano.
In questa direzione, all’austero semicerchio del teatro entro il quale Vasari racconta la parabola di Michelangelo (normalmente frequentato, nelle università cinquecentesche, per le lezioni di anatomia) si contrappone, simbolicamente, l’antro del pittore e dello scultore, luogo dell’anima, del rapporto con il divino e del mistero, simile a cava di marmo lambita dalle acque fangose del tempo, della memoria.
A livello estetico, invece, lo sguardo ha modo di spaziare tra i capolavori del Buonarroti e di estendersi tra le pieghe di un mantello, le venature di una mano; di cogliere i dettagli di scene pregne e sovraffollate, sature di colore, in barba agli usi e costumi dell’arte del tempo. Dal primo gruppo marmoreo, stupefacente ed emozionante, di un’artista appena ventiquattrenne: La Pietà; alla colossalità del David – alto più di cinque metri – e del Mosè, in cui si ravvisa il volto di Papa Giulio II; alla straordinarietà degli affreschi di mille metri quadri di volta della Cappella Sistina; sino alla dolente incompiutezza della Pietà Rondanini, l’opera ultima, esaltazione del non finito che assurge a simbolo della condizione umana.
Un altro grande Michelangelo – Antonioni – ha cercato di restituire, attraverso le immagini silenziose e diluite di Lo sguardo di Michelangelo (2004), una metafisica: “l’incolmabile scarto tra il divino e l’umano”.
Michelangelo – Infinito coglie, concentrandola nello sguardo e nel volto terreno, sofferente, trasfigurato di un maturo ed istrionico Enrico Lo Verso, la vertigine dell’arte e della bellezza.
Come alla fine di ogni operetta morale, di ogni exemplum, la chiusa riassume e precisa il senso del viaggio: “Tutte le opere che Michelangelo fece sono così angosciosamente oppresse che paiono volersi spezzare da sole. Quando divenne vecchio giunse a spezzarle davvero. L’arte non l’appagava più. Voleva l’infinito” (Auguste Rodin).
Emanele Imbucci
Italia, 2018, 93′
Sceneggiatura: Emanuele Imbucci, Sara Mosetti, Tommaso Strinati
Fotografia: Maurizio Calvesi
Montaggio: Sara Zavarise
Musica: Matteo Curallo
Cast: Enrico Lo Verso, Ivano Marescotti
Produzione: Sky Italia e Magnitudo Film
Distribuzione: Lucky Red