Un affare di famiglia
"Tutte le famiglie felici si assomigliano fra loro, ogni famiglia infelice è infelice a suo modo". Sembra nascere e crescere sotto questo assunto, lultima opera cinematografica - vincitrice della Palma d'oro la scorsa primavera al Festival di Cannes - del giapponese Kore'eda, indefesso e acuto esploratore della complessità dei legami familiari già nei suoi precedenti film
"Tutte le famiglie felici si assomigliano fra loro, ogni famiglia infelice è infelice a suo modo". Sembra nascere e crescere sotto questo assunto, l?ultima opera cinematografica - vincitrice della Palma d'oro la scorsa primavera al Festival di Cannes - del giapponese Kore'eda, indefesso e acuto esploratore della complessità dei legami familiari già nei suoi precedenti film
Dove vive e respira la felicità di Osamu e dei suoi familiari (della moglie Nobuyo, della nonna Hatsue e di sua nipote Aki, del piccolo Shota)? Ce lo spiega – o, per meglio dire – ce lo mostra Kore’eda a partire dall’incipit, con lo sguardo fugace e riflessivo della sua macchina da presa che vaga tra le provvisorie e povere pareti di un interno, una casupola raffazzonata con tante suppellettili, abiti sparsi, frammenti di vite, entro cui regna sovrano il caos.
Eppure – si tratta di una condizione esistenziale che, come il racconto ci rivela amaramente nella sua seconda parte, si sconta a caro prezzo – in questa casa ciascuno può godere di una forma di felicità bizzarra, precaria ma condivisa, molto al di là delle esistenze zoppicanti dei singoli: Nobuyo lavora in una lavanderia il cui proprietario riesce a stento a retribuire le sue dipendenti, Osamu è un operaio edile saltuario, Aki una ragazza immagine e tutti sopravvivono anche grazie alla pensione della vecchia Hatsue (meravigliosa, in questo ruolo, l’attrice nipponica Kirin Kiki, scomparsa qualche giorno fa) e a regolari furtarelli compiuti dallo stesso Osamu insieme a Shota.
La felicità è liricamente espressa, a livello estetico, dalle tonalità sature di una fotografia che sa cogliere i passaggi climatici e delle stagioni (gli alberi verdeggianti, il lucore della neve, l’azzurro ceruleo del mare) così come le luci e le ombre degli interni, i bruniti spenti dei desolanti parcheggi urbani, i grigi impersonali degli enormi supermarket zeppi di merci, il seppia delle piccole botteghe che resistono, in un Giappone sospeso fra modernità e tradizione.
La felicità piccola e fuggente è data dai pasti consumati insieme, in un ambiente sovraffollato ma protettivo, rassicurante a suo modo (il cibo è un elemento fondante e di spicco in questo film: si mangia spesso, traendo un evidente ed istintivo piacere dai ramen ingurgitati freddi nel calore dell’estate, dalle zuppe, dalle pannocchie di mais fatte bollire); dai fuochi d’artificio soltanto intravisti, guardando in alto attraverso un pertugio; dal farsi bagnare dalle onde del mare, tenendosi per mano, in un’immagine che diventa, involontariamente, affresco e metafora.
Non è un quadro idilliaco, questo, come si è detto: dietro gli scherzi e le confidenze virili tra padre e figlio, dietro le confessioni amorose di Aki a sua nonna e Nobuyo (rilevante l’episodio dell’incontro, empatico e tenero, della ragazza con un suo giovane cliente), come dentro gli abbracci materni di quest’ultima a Yuri, bambina smarrita da due genitori in crisi personale e di coppia, ci sono la tragicità di un passato e di un presente feroci. Amanti disperati costretti a scelte estreme, genitori inetti e violenti, figli abbandonati, perduti, soli, allo sbando. Una vita misera, di compromessi ed espedienti; una vita in fuga, dagli altri e da se stessi.
Shota, trovato solo in un parcheggio da Osamu e Nobuyo, non sa pronunciare la parola “papà”, mentre Yuri si scusa in continuazione (ne capiremo le ragioni soltanto alla fine del film). Ma è questa – ce lo mostra chiaramente Kore’eda – l’unica felicità, l’unico modello di famiglia possibile; non soltanto e non più quella che nascita e “destino” ci hanno assegnato, ma anche e soprattutto quella che abbiamo scelto.
La “heimat”, la patria come dimora del cuore, dei sentimenti, del vivere quotidiano nel mondo, non è più dipendente dai legami di sangue, ma dai vincoli affettivi, gli stessi che cementano i rapporti tra i membri della composita famiglia messa in scena da Kore’eda, costantemente minacciata dalle brutture del reale, dall’indifferenza sociale, dalla burocrazia e dalle pastoie di una legge imparziale ma cieca.
“Ogni persona porta in sé la sua ‘Schabbach’”, afferma il grande regista tedesco Edgar Reitz, che sulle differenti sfumature di significato della parola “heimat” ha costruito in trent’anni una lunghissima saga cinematografica, non a caso attraverso il racconto delle vicende – dal 1919 in poi – di una famiglia abitante un immaginario villaggio della Germania meridionale.
“A volte è meglio scegliersela la propria famiglia”, sostiene Nobuyo; e si domanda: “Si è madri solo perché si partorisce?”.
È intorno a queste riflessioni-domande che si aggrega e si dipana “Affari di famiglia”, con quel suo procedere sghembo, a tratti, in situazioni e inquadrature, tra scorci, primi piani potenti e fughe prospettiche, in un Giappone riconoscibile ma, allo stesso tempo al di fuori di ogni precisa connotazione geografica.
Un luogo reale ma dai risvolti interiori, in cui Hirokazu Kore’eda immerge il suo apologo morale sul conflitto tra legge dello Stato e legge di natura, tra ragione e sentimenti, tra sprazzi di felicità vissuta a spizzichi e a morsi e lampi di tristezza (vedi la chiusa emblematica, con lo sguardo trasparente della piccola Yuri rivolto all’esterno della terrazza in cui la sua “vera” famiglia ha circoscritto la sua infanzia).
Hirokazu Kore-eda
Giappone, 2018, 121′
Sceneggiatura: Hirokazu Kore-eda
Fotografia: Ryūto Kondō
Montaggio: Hirokazu Kore-eda
Musica: Haruomi Hosono
Cast: Sôsuke Ikematsu, Sakura Andō, Mayu Matsuoka, Lily Franky, Kirin Kiki
Produzione: Aoi Promotion, Fuji Television Network, GAGA
Distribuzione: Bim Distribuzione