Un marziano interdetto
Uno che arrivi da fuori, fuori dal nostro mondo o fuori dalla nostra civiltà (sì occidentale, ma non solo ), potrebbe avere grossi problemi a capire il comportamento degli esseri umani, il senso di ciò che fanno, gli obbiettivi per cui passano il tempo o a cui dedicano la vita
Uno che arrivi da ?fuori?, fuori dal nostro mondo o fuori dalla nostra civiltà (sì occidentale, ma non solo?), potrebbe avere grossi problemi a capire il comportamento degli esseri umani, il senso di ciò che fanno, gli obbiettivi per cui passano il tempo o a cui dedicano la vita
Finita la Formula Uno sono passato alla conclusione dell’ultima tappa del giro di Francia con il circuito sugli Champs Elisée, percorso otto volte. Anche qui sono stato colpito dalle riprese dall’alto, in particolare dalla telecamera sulla verticale dell’Arco di Trionfo che trasmetteva bellissime immagini del gruppo sgranato che scorreva velocissimo lungo il cerchio perfetto della rotonda attorno all’Arco. Anche qui era forse l’aspetto estetico che mi impressionava di più.
E, all’improvviso, mi sono sentito come un marziano calato per la prima volta sulla Terra, che si chiedeva che cosa stessero facendo quelle formichine che correvano una dietro l’altra su due ruote esili oppure quelle altre, costrette dentro dei gusci velocissimi con quattro larghe ruote, che avevano cercato di superarsi ad ogni curva. E cosa ci facevano tutte le altre formiche che si agitavano e si entusiasmavano lungo il percorso?
Uno che arrivi da “fuori”, fuori dal nostro mondo o fuori dalla nostra civiltà (sì occidentale, ma non solo…), in effetti potrebbe avere grossi problemi a capire il comportamento degli esseri umani, il senso di ciò che fanno, gli obbiettivi per cui passano il tempo o a cui dedicano la vita.
Che importanza ha arrivare primo in una corsa? Che senso ha dedicare la vita, fare sacrifici enormi di tempo, denaro, fatica, relazioni, rischiare persino la pelle per arrivare qualche volta prima degli altri? E cosa ci trovano di così interessante, importante, entusiasmante, glorioso in queste gare quelli che assistono, tifano (e io sono, con parsimonia, tra questi), soffrono o sono felici per il corridore favorito, spendono per vedere lo spettacolo, e sono influenzati (condizionati) dalla pubblicità delle società che finanziano questo sistema?
Mentre queste domande mi ritornavano periodicamente in testa è arrivato agosto e sono arrivate le Olimpiadi di Rio de Janeiro, e poi è pure ricominciato il campionato di calcio…
Il tema si è allargato, si è generalizzato, è diventato mondiale, tutte le nazioni ne sono state coinvolte, miliardi e miliardi di persone in tutto il mondo hanno visto in qualche modo le gare, hanno tifato per i propri rappresentanti, si sono inorgoglite o si sono rattristate per i risultati ottenuti. Anche la politica internazionale ne è stata coinvolta, dall’esclusione parziale degli atleti russi per questioni di doping di stato, alla mancata stretta di mano del lottatore fondamentalista egiziano anti-israeliano.
Ma le domande di fondo non hanno ottenuto alcuna risposta (ammesso che esista). Che senso ha tutto ciò? Per quali ragioni, con quali criteri diamo importanza a queste cose? Che cosa ci guadagna l’umanità dallo sforzo, dal sacrificio personale di tante persone (ammesso che questo possa essere un criterio di giudizio)?
È nota l’interpretazione che è stata data da molti storici e sociologi dello sport, tra cui N. Elias e E. Dunning: sport in quanto mimesi della guerra. Secondo loro lo sport “è stato uno dei protagonisti del processo di civilizzazione che in Europa si è sviluppato intorno al ‘700 e si è concluso alla fine dell’800. Processo in cui lo sport è servito a scaricare le tensioni tra i gruppi creando situazioni di finta guerra, sublimandole in riproduzioni mimetiche, non cruente, trasferendo le tensioni tra i popoli dal campo di battaglia a quello sportivo”.
Una tesi che mi lascia perplesso se penso anche soltanto al periodo napoleonico, o a quel che è successo in Europa dopo le olimpiadi del 1934…
E poi una ragione sociologico-politica di quel genere può condizionare o motivare le scelte e le aspirazioni personali di un singolo atleta?
Io credo che le motivazioni su cui si fonda lo sviluppo dello sport nella storia, e in particolare nella storia moderna, siano molto più complesse ed affondino le proprie radici nella psiche, nella cultura, nella visione della vita dell’uomo.
In tutte le epoche l’uomo ha sempre avuto bisogno di un equilibrio psicologico tra la fatica per la sopravvivenza, l’”utile essenziale”, e l’”inutile”, il gioco, l’arte, la bellezza, il pensiero. Già nella preistoria, dove certo le condizioni di vita non erano gran che, l’uomo investiva una parte dei suoi beni e del suo tempo in monili e graffiti “inutili”. Già allora la felicità non dipendeva soltanto dalle condizioni economiche, e man mano che nel corso dei millenni le condizioni di vita sono migliorate, la felicità è stata sempre meno soggetta agli aspetti economici (anche se resta vero il proverbio che il denaro non fa la felicità, ma aiuta molto…).
In questi ultimi decenni, però, a me sembra che quest’equilibrio si sia modificato, quasi rotto.
I mezzi di comunicazione di massa ne sono stati lo strumento, perché hanno reso visibili in ogni parte del mondo le condizioni di vita di chi sta economicamente meglio, ma è il messaggio che è passato quello che ha rotto gli equilibri: chi ha di più è più felice. Si possono citare diversi esempi. Il famigerato PIL, prodotto interno lordo, che è diventato l’unico metro di misura del benessere delle nazioni e in base al quale si impongono sacrifici e tagli ad una parte della popolazione, ad esso invano si è cercato di opporre altri criteri quali il FIL, felicità interna lorda dove i parametri misurati non riguardano soltanto l’economia ma anche altri aspetti della qualità della vita in un paese.
Un caso classico, vissuto, è stata la riunificazione delle due Germanie: il cambio 1:1 dei due marchi ha reso improvvisamente, e temporaneamente, ricchi e felici i tedeschi dell’Est che, però, nel giro di pochi anni si sono resi conto di quanto la vita occidentale sia più competitiva, incerta, stressante e molti hanno cominciato a rimpiangere la vita più povera, sì, ma decisamente più tranquilla e rilassata goduta sotto il comunismo. Anche una parte dei migranti economici è vittima, secondo me, di questo equivoco-miraggio che viene stimolato anche dalla nostra visione che povertà economica sia sinonimo di infelicità.
Ma cosa c’entra tutto ciò con lo sport? C’entra, c’entra…
Basta pensare al caso più emblematico, in cui i fattori sportivi, di spettacolo ed economici si concentrano ai valori massimi: il calcio professionistico.
Allora mi tornano prepotenti le domande di prima: che senso ha spendere tanto denaro, ad esempio, per un calciatore come Iguain, entusiasmarsi all’inverosimile per una palla che entra in rete, dedicare tanto del proprio tempo, della propria vita, delle proprie risorse a cose del genere? A cosa serve? Come favorisce lo sviluppo del resto dell’umanità?
E il marziano interdetto che è in me non trova risposte…