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    Confapi:
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    Marco Madonia - marco.madonia@alessandrianews.it  
    8 Maggio 2013
    ore
    00:00 Logo Newsguard

    Confapi: “in provincia imprenditori in trincea”

    Dall’osservatorio privilegiato di Confapi, che raccoglie e assiste quasi 600 aziende su tutto il territorio provinciale, proviamo a tracciare lo stato di salute delle piccole e medie industrie private locali. Le priorità? "Uno Stato più serio e maggiore umiltà da parte di tutti. Chi fa la Bocconi ma non la gavetta fa i danni maggiori"

    Dall?osservatorio privilegiato di Confapi, che raccoglie e assiste quasi 600 aziende su tutto il territorio provinciale, proviamo a tracciare lo stato di salute delle piccole e medie industrie private locali. Le priorità? "Uno Stato più serio e maggiore umiltà da parte di tutti. Chi fa la Bocconi ma non la gavetta fa i danni maggiori"

    INTERVISTE – Cesare Manganelli, da poco nominato direttore di Confapi e Gabriele Vizio, imprenditore a capo della Denaldi Legnami di Casale Monferrato ci accolgono nella sede della Confederazione in via Pisacane per un ragionamento a 360 gradi sul mondo delle imprese del nostro territorio, sulle cause della crisi e sulle strategie per uscirne.

    Oggi è inevitabile parlare di crisi, ma la realtà è che l’economica provinciale dà segni di difficoltà già da alcuni anni. Qual è la situazione dal vostro punto di vista?
    Sicuramente la nostra realtà costituisce un osservatorio privilegiato: fornendo servizi e consulenza per quasi 600 aziende distribuite in maniera omogenea su tutto il territorio provinciale raccogliamo da tempo diversi elementi di valutazione. Un conto è prendere in considerazione le grandi multinazionali presenti sul territorio, che hanno un impatto occupazionale qui ma la “testa” spesso altrove, un conto è conoscere chi è nato in provincia e, seppur in piccolo, combatte ogni giorno per rimanere vivo.

    Quali sono gli aspetti più caratteristici della crisi in corso? Di chi sono le responsabilità maggiori per ciò che sta accadendo sul nostro territorio?
    Quella attuale è la difficoltà di diversi settori imprenditoriali e non solo. La mancanza di lavoro non è un fattore nuovo, ma ciò che è cambiato è il fatto che ormai la crisi non è solo economica ma anche finanziaria e spesso tecnologica e competitiva. Bisogna essere seri e ancora più preparati rispetto al passato. La verità è che la colpa per la situazione attuale è di tutti, nessuno escluso. Lo Stato, i sindacati, il mondo finanziario ma anche gli imprenditori. Il punto è che non ci possiamo permettere la paura in questa fase, semmai serve una riflessione seria su ciò che si può fare per rimboccarsi le maniche e riparare agli errori commessi. Si tratta di una vera e propria “guerra” da combattere giorno per giorno per la sopravvivenza. E qui ci sentiamo come in trincea. 

    Il rischio però è che diventi una guerra di tutti contro tutti, e che a farne le spese siano prima di tutto i lavoratori. Non è così?
    Questa è una guerra economica che non si deve trasformare in un’ulteriore battaglia sociale indiscriminata. La lotta riguarda il sistema, e semmai va combattuta con l’unità e la necessità che ciascuno seriamente faccia la propria parte, a partire dagli stessi imprenditori. E’ impensabile restare ancorati ai modelli del passato. Oggi la tecnologia ha rivoluzionato il modo di produrre e chi non è in grado di governare l’innovazione viene automaticamente estromesso dal mercato. Un esempio? Ormai i normali utensili del lavoro in azienda, come per esempio le macchine a controllo numerico, richiedono capacità specifiche che metà delle maestranze non possiedono. D’altronde, consentono di produrre ciò che prima veniva realizzato da diversi addetti da un solo impiegato che ne sappia controllare l’attività. Nascondersi non serve, bisogna fare i conti con il mondo che cambia e possibilmente essere più bravi degli altri a sfruttare le innovazioni. Siamo noi che dobbiamo adeguarci ai tempi e non il contrario.

    Qual è il ruolo dello Stato in questa corsa alla competitività?
    Questo è uno dei punti chiave. Altrove, come per esempio in Francia, la situazione di crisi è simile alla nostra, ma lì il pubblico riesce a giocare un ruolo ben diverso a sostegno della propria industria. Innanzitutto per poter lavorare e ottenere determinati benefici bisogna produrre e avere sede in Francia, mentre da noi non esistono tutele per gli imprenditori del territorio, spesso vittime di competizione da realtà estere che godono di situazioni fiscali e burocratiche molto facilitare rispetto ai vincoli di un’impresa italiana. In più in Francia, ma non è l’unica realtà a funzionare così, lo Stato paga con regolarità i suoi fornitori, a 45 giorni dallo svolgimento dei lavori e i controlli sulle produttività dei manager pubblici li fanno davvero. Qui da noi imprese sono spesso costrette a chiudere perché lo Stato non paga loro quanto dovuto e non fornisce servizi all’altezza degli altri paesi. Basta guardare cosa succede con i grandi manager delle aziende di Stato: non ce n’è una che faccia utili o funzioni davvero, eppure sono premiati con stipendi milionari. All’estero li avrebbero già cacciati tutti.

    Industria e Stato dovrebbero dunque fare di più. E le banche?
    Per i manager delle banche vale un discorso analogo. I direttori sono persone spesso mai andate in trincea, mai stati allo sportello ad avere rapporti diretti con i clienti. I più pericolosi, come così nelle imprese, rischiano di essere i laureati alla Bocconi e simili: sono preparati in teoria ma è la pratica e la gavetta che manca loro, e si tratta di esperienze che fanno la differenza. C’è da dire che lavorare oggi in banca non è facile. La crisi è tale che prestare i soldi è in effetti un’attività sempre più a rischio. La colpa è anche di quegli imprenditori che hanno atteggiamenti poco seri con gli istituti di credito, finendo per penalizzare tutto il comparto. Però certe situazioni sono comprensibili, perché in Italia l’imprenditore non ha alleati nelle istituzioni, come succede all’estero, ma solo problemi ulteriori.

    E dalla politica che tipo di risposte vi attendete? Pare per esempio che Grillo abbia con voi un rapporto speciale e vi consideri fra i pochi interlocutori credibili…
    Confapi è nata come realtà non prevista dalla teoria economica tradizionale, dove le imprese sono piccole e medie come stadi intermedi prima di diventare grandi. Da noi sono proprio queste realtà che costituiscono l’ossatura dell’economia. Il Movimento Cinque Stelle ha il pregio di proporre ancora qualcosa in cui credere e intravedere un cambiamento possibile. Servirebbe fare una vera e propria rivoluzione se ne avessimo la forza, ma sicuramente quel che è necessario fare è ripartire dalla valorizzazione della piccola e media industria del territorio. Grillo lo dice da tempo e noi ovviamente siamo d’accordo con lui. L’Api dovrebbe diventare per gli imprenditori ciò che la Fiom è per i sindacati e i lavoratori.

    L’export è il comparto trainante dell’economia provinciale. Non c’è il rischio che si perda il legame con il territorio?
    E’ innegabile che si debba per forza guardare all’estero per rimanere competitivi. Un decennio fa già si ragionava sui rischi che ci sarebbero stati per la nostra economia a produrre all’estero per vendere in Italia a prezzi ribassati: è ovvio che così facendo si uccide l’impresa sul territorio, che ha costi per la manodopera e tassazione ben più alti. Pensiamo a quanti soldi vengono oggi spesi dallo Stato per la cassa integrazione. E’ un corto circuito dal quale è necessario uscire al più presto. Quelle sono risorse da reimmettere nel sistema, come incentivi per chi investe in Italia e come stimolo per la nostra economia. Puntare al mondo è fondamentale, ma la nostra ricetta è quella che consenta di mantenere qui il cuore delle aziende, e soprattutto la “testa”, la ricerca e sviluppo, la parte più strategica e proiettata al futuro.

    Quale spazio c’è per i giovani nel mondo delle imprese oggi?
    Noi crediamo fermamente nei giovani, che sono il futuro dell’Italia, e non è un discorso retorico. Quello che però manca loro, a fronte di una formazione e una cultura sul piano teorico maggiore rispetto al passato, è l’esperienza della trincea e la voglia di mettersi in gioco affrontando tutte le difficoltà che si devono incontrare. Lo Stato, ancora una volta, fa poco e niente per incentivarli. Come fa un ragazzo appena uscito dall’università a confrontarsi con pagamenti in costante ritardo, leggi sulla concorrenza mortificanti e una burocrazia spesso pachidermica? La verità è che ancora non abbiamo compreso quale sia il mix vincente per creare nuovi giovani imprenditori: sicuramente la propensione e rischiare e investire è ancora fondamentale, ma oggi si è sempre meno incentivati a tentare. Non basta la voglia di guadagnare per fare l’imprenditore: serve la capacità di innovare continuamente, di formare i propri lavoratori, l’ambizione di realizzare sempre e comunque il prodotto migliore rispetto alla concorrenza. I giovani che hanno la voglia e il coraggio di tentare una simile impresa, purtroppo, sono sempre meno. Come biasimarli?

     

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